“… lasciò un uomo, ne lasciò un secondo, tornò a viaggiare con il primo; lo lasciò morire solo come un cane. Perse una figlia a beneficio della “storia” e un’altra in seguito a certe “complicazioni” …, si credette in grado di sbarazzarsi di un simile fardello e venne a BocaGrande, in qualità di turista. Una turista. Così diceva lei. In realtà, venne qui più come ospite di passaggio che come turista, ma lei non faceva una tale distinzione. Non faceva abbastanza distinzioni. Sognava la propria vita … Charlotte avrebbe definito la propria storia una vicenda di passioni. Credo invece che io la definirei una vicenda di illusioni …”.
Avere la presunzione di spiegare un autore (qualunque autore ma soprattutto se si tratta di una delle voci più importanti, iconiche, ascoltate e rispettate così diversa da quelle che troppo spesso affollano questi nostri tempi con il loro squittio insensato ed inconcludente) analizzando un suo unico libro è, appunto, presunzione pura e semplice.
Per questo motivo, il parlare di questo “Diglielo da parte mia” di Joan Didion (giornalista, scrittrice, sceneggiatrice, firma tra le più in vista del new journalism, una delle riconosciute maggiori autrici contemporanee) non è altro che il tentativo di raccontare almeno l’inizio di quella che, al di là delle patacche e delle onorificenze appiccicate al risvolto del tailleur, rappresenta davvero una voce libera e potente in grado di squassare le coscienze e indurre al pensare.
E quindi, eccoci all’inizio dei favolosi seventies (il libro fu pubblicato per la prima volta nel 1971), il periodo d’oro in cui tutto, o quasi, di ciò che conosciamo oggi (cinema, musica, arte letteratura) cominciò quasi si trattasse di un lancio nell’abisso senza paracadute in puro style Patrick de Gayardon (l’uomo che negli anni ’90 sdoganò nell’immaginario collettivo la tuta alare che permetteva di volare come gli uccelli, o meglio come i “petauri dello zucchero”, i piccoli marsupiali conosciuti come "scoiattoli volanti”).
Fu allora, infatti, che agli stilemi finora riconosciuti ed accettati vennero sostituiti l’affastellamento, la frammentazione, il ritmo sincopato e la parcellizzazione delle immagini, dei suoni degli sguardi e delle parole (l’esempio forse più eclatante, è quello del cinema di Sam Peckinpah con l’idealizzazione del ralenti, e delle sequenze riprese con fino a 50 camere diverse, che rappresentò l’ideale cui tendere di giovani cineasti come Martin Scorsese e Walter Hill, Kathryn Bigelow e James Cameron, Quentin Tarantino e John Woo) come forma espressiva sublime e subliminale; un’arte, ed una cultura che tra squilli di modernismo e sprazzi di liberismo affermava una nouvelle Weltanschauung così diversamente creativa rispetto a tutto quello visto, ascoltato, creato o scritto fino a quel momento.
Nello specifico, nel romanzo della Didion, siamo a BocaGrande, una delle innumeri repubbliche delle banane da un colpo di stato all'anno che negli anni di mezzo del secolo scorso prosperavano in America latina grazie ai finanziamenti della CIA mascherati dietro il paravento del commercio, appunto, delle banane (in questo caso della copra, la polpa essiccata del cocco, l'endosperma del frutto, da cui si estraggono grassi e oli).
Ed è qui, BocaGrande appunto, che arriva, alla fine di un’odissea umana e psicologica, Charlotte Douglas una norteamericana bella e sensuale, forse inconsapevole, forse indifferente, del proprio fascino magnetico. Nessuno sa chi sia, cosa cerchi o cosa ci faccia a Boca Grande e dal racconto di Grace Strasser-Mendana, donna fra le più in vista della città, appartenente "a una delle cinque o sei famiglie solvibili del paese" e sua, forse, unica amica o confidente, si può solo intuire come la vita le abbia fatto delle promesse che lei ha fraintese, come abbia perso delle persone care, si sia trovata sola, e ora sia arrivata a Boca Grande per dimenticare, accompagnata solo dal suo fascino (“… me ne sono andata da vari posti per tutta la vita e non ho intenzione di andarmene da qui …”).
Per quanto riguarda la scrittura, il racconto procede a strappi, la storia è frammentata e frammentaria e il ritmo, sincopato e straniantemente dilatato nella maniera che è stata tipica di certa letteratura se non di avanguardia almeno di aderenza allo spirito del tempo di quegli anni e che richiama “Agenti segreti” di Furio Colombo del 1976 e che i più avranno letto, plagiato, in “Treno di panna” di Andrea DeCarlo nel 1981, è volutamente ambiguo e oscuro preannunciando già capolavori come “I tre giorni del condor” di Sidney Pollack o “La conversazione” di F.F.Coppola.
Stefano Righini
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