Per alleviare insopportabili impulsi

 


26, anzi 27 scrittori sovversivi accomunati dall’essere ebrei. 26, anzi 27 scrittori che Stalin condanna a morte “… senza maggior emozione di quando ordinava l’uccisione dei kulaki o dei preti o delle mogli di amici molto cari …”. Un destino che si compirà solo dopo che Il ventisettesimo uomo”, lo scrittore che non avrebbe dovuto essere compreso nella lista della morte, avrà finito di raccontare il racconto che ha immaginato e composto durante la notte che precede l’esecuzione ai suoi compagni di sventura, “… Breckij si alzò. - Bravo, - disse, battendo le mani. - E’ un po’ come una stella cadente. Un racconto destinato a scomparire insieme a chi l’ha raccontato -. Poi si mosse incontro all’agente che aveva aperto la porta della loro cella … Fuori erano radunati tutti quanti. C’erano Chorianskij e Lubovitch, Lev e Solckij. Tutti quei grandi scrittori costretti a portarsi nella tomba le storie più importanti della loro vita, quelle che ancora non avevano raccontato…”

Umorismo ebraico allo stato puro, quello stesso umorismo amaro e disincantato che faceva dire a Groucho Marx che non avrebbe mai voluto essere accettato in un club che lo avesse ammesso tra i suoi soci. 

Questo è Per alleviare insopportabili impulsi”, la raccolta di 9 racconti (e di cui fa parte appunto “Il ventisettesimo uomo”) che ha lanciato a fine millennio nel firmamento dei grandi scrittori l’allora appena trentenne Nathan Englander. Uno scrittore, Englander, che Anne Beattie, la riconosciuta sacerdotessa del minimalismo letterario post carveriano, benedì dicendo “… ha saputo rinnovare e rivitalizzare interamente la forma del racconto muovendosi tra la raggelata meccanicità delle comiche dei film muti e la clownerie dell’apologo jiddish”

In realtà di davvero nuovo non c’è nulla nella scrittura primigenia di Englander (che non cambierà di molto nemmeno con le opere successive) senza che questo voglia inficiarne la rilevanza quanto piuttosto sottolinearne (grazie all'immutabilità della parabola e alla sapienza della narrazione ebraica,  a un grottesco che l’avvicina a Gogol’ e a un’ineludibilità che ricorda Kafka e alla caustica  intelligenza che tanto abbiamo amato in Philip Roth) la discendenza dalla grande tradizione yiddish, quella dei Singer per intenderci, forse più quella di Israel (il maggiore, l’autore de “La famiglia Karnowski” e delle raccolte di racconti “Nella città vecchia” e “Sulla Vistola” ) piuttosto che quella di Isaac (il premio nobel 1978 autore di “Satana a Goray”, “Il mago di Lublino" e “La famiglia Moskat”) o ancora quella di Esther della quale ci piace ricordare almeno “Deborah”.

 
La famiglia Singer: Esther, Bashevish e Joshua


Stefano Righini


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