Oates, volutamente e volgarmente pop






Per quel che conta, non vincerà mai il Nobel per la letteratura (se mai verrà nuovamente assegnato). Troppo sofisticata ma nel contempo vicina alla gente, troppo diretta ed insieme favolistica, troppo intransigente ma sempre empatia e dolorosamente partecipe, troppo autrice, insomma, anche se così volutamente e volgarmente pop.





Joyce Carrol Oates rimane, comunque ed indiscutibilmente, la scrittrice vivente più importante la cui voce si alza, in ogni sua opera, alta e potente a sovrastare il chiacchiericcio inutile e pigolante di tanta letteratura odierna.





E se non basta a convincervi questo “Doppio nodo”, un thriller psicologico dalle mille sfaccettature e dagli altrettanti rimandi scritto sotto lo pseudonimo Rosamund Smith, andate a rileggervi qualcosa, qualunque cosa, della sua sterminata produzione. Potrete scegliere tra l’horror di “Zombie” e la denuncia femminista di “Stupro”, tra l’amara consapevolezza di decadenza sociale de “L’età di mezzo” e la faticosa analisi personale de “I paesaggi perduti”, tra il ritratto straziante e feroce di un mondo che della corsa alla notorietà e della sessualizzazione dell'infanzia ha fatto ormai un'ineludibile formula esistenziale di “Sorella, mio unico amore” al feroce ritratto in bianco e nero di una nazione lanciata verso il progresso democratico e fatalmente dimentica dei propri più oscuri fantasmi di “Ragazza nera ragazza bianca”, dal biophic di “Blonde” al resoconto romantico e che denota una conoscenza tecnicamente impeccabile e una sensibilità raffinata che tanto sarebbero piaciute a Gianni Mura, al grande “teatro tragico” dello spettacolo della massima “mascolinità idealizzata” di “Sulla boxe”, tra la ricostruzione di uno dei momenti più bui della democrazia americana, l’incidente di Chappaquiddick Island, di “Acqua nera” e il disvelamento di quel nucleo scuro e pulsante della società americana, una società che sotto la patina dorata di un provincialismo perbenista tenta di celare il proprio vero volto sinistro, inquietante e spettrale, de “Il collezionista di bambole”.









Potrei continuare praticamente all’infinito, ogni suo libro esplorando e unghiando e vetrificando sotto una lente da entomologo ogni umana esperienza, ogni umana debolezza, ogni umano sentimento e dolore. Non posso, tuttavia, lasciarmi sfuggire la più definitiva forma di quel SacroGral che è il G.R.A. (il Grande Romanzo Americano): l’amara tetralogia “Epopea Americana“ (“Il giardino delle delizie”, “I ricchi”, “Loro”, “Il paese delle meraviglie”).





D’altronde, come diceva quello, “provare per credere”






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