Ruggine americana

 “… il ragazzo rinuncia ai vecchi sistemi. Se lui non sceglie qualcuno sceglierà per lui. Guardatelo, sta camminando, decide di mettere un piede davanti all’altro; succede. Pensaci, Il gatto di Lee che ti buttava giù le matite dalla scrivania. Perché? Per ricordare a se stesso che ne era capace. Perché una parte di lui - la parte più ancestrale - sapeva che un giorno non ci sarebbe più riuscito. Impara la lezione. Svegliati ignorante ogni mattina. Ricorda a te stesso che sei ancora in vita …”

Di Philipp Meyer (cresciuto a Baltimora lascia il liceo a 16 anni. Dopo aver lavorato per diversi anni in un centro traumatologico, si è iscritto alla Cornell University, dove ha studiato letteratura inglese. Dopo la laurea, ha lavorato in banca, poi come operaio edile, e infine di nuovo in un ospedale e definito dal «The New Yorker» tra i 20 migliori scrittori sotto i 40 anni) avevamo già segnalato il suo secondo romanzo, “Il figlio”, il 3 luglio 2016 (http://iltiromagazine.it/il-figlio-di-philip-meyer-uno-dei-libri-più-forti-di-sempre).


Torniamo adesso volentieri ad occuparci di lui per questo “Ruggine americana”, suo primo lavoro, sorta di romanzo di formazione, apprendistato alla vita e disillusa presa di coscienza della realtà, una realtà (acciaierie dismesse, fabbriche abbandonate, industrie parcellizzate) così diversa, così distante dal sogno americano che pareva dovesse non finire mai (“… la Steelcor pagava bene. Ti hanno solo sfruttato e la sicurezza lasciava a desiderare. Bastava guardare le statistiche, gli incidenti erano in crescita. Ma le statistiche non dovevi guardarle. Stavi lì per farti un gruzzolo. Cercavano di spremere fino all’ultimo dollaro da quella fabbrica senza prima aver risolto tutte le magagne … la Penn Steel da quindici anni non spendeva un soldo per i suoi impianti, quasi tutte le altre grandi acciaierie nazionali erano conciate alla stesso modo, cascavano a pezzi, molti usavano enuncio processo di lavorazione mentre tedeschi e giapponesi avevano introdotto l’ossigeno puro già dagli anni Sessanta, i giapponesi ed i tedeschi spendevano sempre soldi per i loro impianti. Investivano sempre su se stessi. Invece la Penn Steel non aveva investito mai un centesimo nelle sue fabbriche, garantendosi la rovina. Mentre tutti quegli stati assistenziali, la Germania, la Svezia, producevano ancor acciaio in quantità …”).

Ed è in questo ambiente depresso e fatiscente, e reso tanto più opprimente dal paragone con la stordente sontuosità della natura rigogliosa che circonda la cittadina di Buell, che si intersecano e si inseguono le vite e i destini dei protagonisti di questa favola nera che tanto ricorda altre opere mirabili singolarmente affini (per tutte, lo struggente bianco e nero de “L’ultimo spettacolo” di Peter Bogdanovich): il timido, introverso e geniale Isaac, sua sorella Lee che ha lasciato il paese per una laurea ad Yale, l’amico di sempre Poe, ex stella della locale squadra di football, sua madre Grace, dalla bellezza sfiorita e dai rimpianti divoranti, lo sceriffo Harris il cui scopo sembra essere quello di risolvere problemi e poi tutto un ruotare di personaggi, comprimari, coprotagonisti che donano sapore e completezza al plot.


Commenti