Se l’occasione è da non perdere

Chiusura, clausura, riapertura, ripartenza: se abbiamo imparato a fare senza di qualcosa,  impariamo ora a cambiare, a  trasformare e  migliorare le nostre azioni e le nostre abitudini con quel “senza” trasformato in “opportunità”. Esempio? Il mio pallino, o uno dei miei pallini: il traffico da spostamento quotidiano, il pendolare. Mamma mia che tristezza il pendolariato. 

 “Di quello che non c’è si fa senza”, diceva mia nonna Clotilde, saggia donna di campagna che amministrava una tribù agricola di una quindicina di persone. E se mancava qualcosa per il pranzo o per la cena s’inventava qualcosa cogliendo dall’orto quello che la terra al momento offriva. Zucchine e pomodori, patate e insalata a volontà. Con 40 galline erano assicurate le uova fresche per tutti e non c’era bisogno d’andare al supermercato a comprare qualche etto di prosciutto e con esso qualche etto di plastica e cartone, da buttare.  Oddio sto cedendo al poemetto nostalgico. Mi riprendo.

Mi viene in mente questa frase di nonna Clotilde a proposito di quello che non abbiamo avuto a disposizione nei periodi seri di clausura e di chiusura domestica e cioè  libertà di movimento, corse al bar, code alla banca e camminate senza limiti, e di quello che adesso rischiamo di sprecare, di perdere, cioè l’occasione di cambiare. Di cambiare davvero, non per poco tempo e in superficie, ma in profondità e con costanza. 

Anche il solo nome ti evoca schema, gabbia, costrizione tra code e tempi  lunghi, tra caselli e semafori, tra marmitte e occhiaie. Ma vi siete mai chiesti perché sarà mai necessario pendolare?  Ma è davvero sempre necessario trasportare le nostre stanche membra, o il nostro aitante corpo, poco cambia ai fini del traffico, dalla casa a un posto di lavoro? Siamo sicuri che quelle stanche membra (sparse le trecce morbide sull’affanoso petto) e il corpo aitante siano indispensabili in presenza fisica o non sia meglio considerare anche dopo la pandemia la presenza virtuale, remotata?

Da vent’anni e forse più andiamo ci riempiamo di studi e analisi sul telelavoro. Tele trasporto e intelligenza artificiale, reti neurali e sistemi complessi, schermo a Milano e operiamo con i bisturi a Chicago eppure ci spostiamo da Novoli a Scandicci, da Siena e Vinci, da Gonzaga a Castiglione delle Stiviere, senza chiederci e senza chiedere al sistema se è davvero indispensabile, e non invece basta una voce una video immagine, un pdf, una grazia di registrazione.

A proposito di grazia umana: grazie alla rete, grazie al telefono, grazie a internet, grazie agli schermi, grazie al progresso possiamo fare cose che prima del 1980 non erano nemmeno immaginabili. 40 anni, non 400. Ricordo che nel 1995 si facevano congressi fiduciosi sul telelavoro. Diciamolo: era visto però come un fronte per pochi eletti o per un gruppo di sfigati. No, errore. Doveva essere la frontiera della modernità, ma come al solito abbiamo lasciato che tutto finisse in un congresso o su ingiallito giornale. La pandemia da Covid ci ha costretto a mettere in fila tutte le nostre fragilità operative per ripensare  gesti quotidiani e strategie annuali, e prima di tutto quali azioni possiamo fare senza far girare il nostro corpo cos’ fonte e così ricettacolo, di tutto e quindi anche di virus. Non dobbiamo perdere l’occasione di trasformare la crisi in opportunità, la difficoltà in soluzione. Che tristezza rivedere le code ai semafori, che tristezza incontrare di nuovo gli sfiduciati del pendolariato.  Li vedi: sembra triste aggrottata anche la mascherina che portano.

So che molte aziende stanno ragionando tra leggi, norme e accordi sindacali per proseguire l’esperienza del lavoro da casa per molti dipendenti che non debbono andare tutti i giorni in presenza fisica. Ci vogliono coraggio, lucidità sostegno e cambiamento di paradigma: non un lavoro misurato dal minuto e dall’orario, ma il lavoro valorizzato dal progetto, dalla relazione, dalla consultazione. Che bello il florilegio di videoconferenze anche per discutere di una fattura. Tra Bagno a Ripoli e Pistoia o tra Monzambano  e Mantova, dove le distanze e gli orari si abbattono.

Certo ci vogliono quelle cose dette prima e anche le infrastrutture: ci vuole la rete, ci vuole la connessione. Non possiamo fare video conferenze e lavorare in agilità se accendiamo l’ultimo valido pc e la rete non ci supporta e ci fa vedere a quadrettini o ci fa sentire l’audio dopo cinque minuti. Fanno prima a dialogare gli astronauti in orbita con le centrali di controllo alla Nasa che due  o tre videocollagati in una periferia non servita dalla rete come si deve. Sono magagne che vanno riparate, sono problemi che vanno risolti. Andiamo per i trent’anni di internet tra la gente, facciamo che diventi veramente uno strumento per tutti, proprio adesso che abbiamo l’occasione di trasformare pezzi della nostra vita quotidiana in frammenti di futuro. Come dice giustamente il mio amico Claudio che fa il webmaster di professione, quindi abituato ai collegamenti alle reti alle trasmissioni all’on line e all’off line, uno che è capace di trasmettere partite e messe, quadri e suggestioni, ebbene mi ripete e si ripete: perché  mai un impiegato che abita per esempio ad Anagni  deve fare due ore di viaggio al mattino e due ore di viaggio alla sera per andare a Roma entrare in una stanza accendere un computer per inserire dati di presenza assenza di personale che potrebbe e può immettere comodamente dal computer di casa sua?

E chissà quanti altri esempi ci sono. Lasciamo la strada ai medici e agli infermieri che debbono andare in ospedale e nei centro di cura, lasciamo la strada e il passo a quegli operai, artigiani, professionisti che debbono andare di persona e operare con le loro braccia e le loro gambe. Ma ci sono anche qui dei tabù da abbattere. Abbiamo visto che per i lavori edili e di manutenzione stradale dei cantieri ci sono forme di telelavoro possibile con la realtà aumentata e il tele controllo. Si può lavorare a distanza con la condivisione di schermi e documenti, ci fanno vedere che è possibile  curare un fegato a 4000 chilometri dal paziente, vedere la fibrosi polmonare di una persona ricoverata nell’altro emisfero, consolare un congiunto all’altro capo del mondo. Facciamo che il nuovo concetto di distanza ci avvicini a quel futuro che abbiamo sognato e che adesso un virus nella sua poderosa schifezza ci obbliga a considerare come un comandamento di modernità

“Capire è cambiare. Se non cambiamo vuol dire che non abbiamo capito”.


Fabrizio Binacchi 


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