Cosa fa di un libro un bel libro 1/2


Cosa fa di un libro un bel libro? Qual’è il motivo per cui un libro, sia esso romanzo, saggio, fumetto, reportage, biografia, ecc… cattura l’attenzione del lettore e rimane nella sua memoria e nel suo bisogno?





Ognuno, mi rendo conto, potrebbe dare risposte diverse a seconda del proprio sentire,





Io, ad esempio, rifuggo dai libri che hanno troppo successo, i cosiddetti bestsellers come da quelli che trovano motivo d’essere dalla vita riflessa delle presentazioni in TV, dei premi strombazzati, delle pagine e pagine di pubblicità, prezzolate of course, su quotidiani e riviste specializzate e non.





Per dire: Philip Roth è senz’altro uno dei grandi, grandissimi, scrittori contemporanei, da sempre considerato il più titolato ad insignirsi del titolo onorifico di GrandeScrittore del GRA (Grande Romanzo Americano) ed oggettivamente alcune sue opere, vedi “Everyman” o “Pastorale americana”, pur non potendo minimamente ambire al titolo di G.R.A. (che l’autore stesso, forse autoironicamente utilizza come titolo per un suo lavoro del 1973, “Il grande romanzo americano” appunto) sono buoni libri, forse ottimi, ma gli altri, dai, diciamolo non vergognandoci di ricordare la corazzata potiomkin di Fantozzi/Villaggio, che palle; e Salman Rushdie, sarà anche stato insignito del Booker Prize per “I figli della mezzanotte” (un piccolo/grande plagio de “Il tamburo di Latta” di Grass), ma vorrei conoscere qualcuno che sia riuscito a leggere fino in fondo “I versetti satanici”, il romanzo (a grandi linee ispirato a “Il maestro e Margherita” di Bulgakov) che gli ha garantito notorietà imperitura, non fosse altro per la fatwa lanciata su di loro (autore e libro) da Khomeini; ancora, Amélie Nothomb sarà pure l’enfant (ex) terrible della letteratura di lingua francofona, seguitissima, amatissima, pubblicatissima (18.000.000, diciotto milioni, di copie vendute) ma che qualcuno mi citi al volo due titoli della sua corposissima ancorché sconosciuta ai più bibliografia;









annovero poi amiche (e amici) cui si illuminano gli occhi al solo sentire nominare “Shantaram” di Gregory David Roberts summa massima e raffazzonato compendio di inverosimili scempiaggini spacciate, dall’autore, come biografiche per cuori palpitanti (c’è anche la scena, come da contratto, ambientata sull’esotica spiaggia romantica con la bellona di turno che, il corpo stillante gocce di mare e umidosa sensualità, abbandona l’eroe che si vorrebbe fascinoso sulla battigia e che non può non far ricordare la pubblicità di Flag, il profumo di VannaMarchi in cui un fustone a torso nudo si allontanava con la bandiera, il flag appunto, in mano e la criniera al vento su uno scalpitante stallone la cui unica pecca era di essere nero e non bianco come da iconografia allora imperante) di chi si lascia facilmente, e felicemente sembrerebbe, suggestionare.









Ci sarebbero poi gli scrittori italiani, quelli famosi, quelli vincitori di premi e capaci di incassi record. Gli Scurati ottimi per chi ami rileggere continuamente la stessa storia (lui, l’autore, è famoso per autocitarsi di libro in libro, anzi per autocopiarsi interi paragrafi se non capitoli), gli accumulatori seriali di premi e riconoscimenti alla Sandro Veronesi (Premio Bergamo nel ’93, Campiello e Viareggio nel 2000, Premio Fregene nel 2001, Strega nel 2006, Prix Femina e Premio Mediterraneo nel 2008, Libro di Qualità nel 2019), gli sponsorizzatissimi Nicola LaGioia e Luca D’Andrea, la romanticamente celata Elena Ferrante e chi più ne ricorda, più ne citi (naturalmente, nessuno è esente da pecche. Nei miei libri del cuore, per dire, compaiono “Triste solitario y final” di Osvaldo Soriano che farebbe storcere ben più di un cipiglio a chi non fosse appassionato di letteratura di genere ed anche “La ballata del mare salato” di Hugo Pratt che altro non è se non un … fumetto).









Arrivato, dopo lunga digressione, al punto di esplicitare finalmente le motivazioni che risolverebbero la domanda iniziale, mi accorgo con sommo disdoro di essermi lasciato trascinare. Del libro di cui avrei voluto dire, cioè, di come per me fosse un grande, grandissimo, libro e del perché, non riesco più, ahi lo spazio tiranno, a parlare. Considererò questo lungo soliloquio, dunque un preambolo a quello. E vorrà dire che mi sarò limitato, per ora, a raccontare più che di ciò che amo, di quello che non mi piace.


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