Porti sbarrati, Pagine aperte


Si riporta l'introduzione di Wu Ming 2 all'e-book "Porti Sbarrati, Pagine aperte" dal titolo: "Scrivere meticcio in tempi salviniani".





Negli ultimi sette anni, la fucina che ha plasmato i racconti di quest’antologia si è presentata con due diversi nomi. Quello ufficiale, riportato sul sito dell’Università di Bologna, è Laboratorio di Scrittura Interculturale. Quello informale, usato in particolare sul blog di Wu Ming, è Laboratorio di Scrittura Collettiva Meticcia. Entrambe le definizioni contengono aggettivi su cui si potrebbe dibattere molto a lungo e che potrebbero anche suonare pleonastici. Qualunque laboratorio frequentato da più persone è già di per sé un’esperienza “interculturale”, così come qualunque scrittura a più mani è già di per sé meticcia (e forse lo è qualsiasi scrittura tout court, anche quella in apparenza più intima e individuale).





Allo stesso modo, qualunque viaggio - anche quello “intorno alla mia camera” - può considerarsi un’avventura, ma se un’agenzia turistica ci proponesse un “viaggio avventuroso”, resteremmo sorpresi vedendolo concretizzarsi in una camminata per le vie della nostra città. Quindi, pur consapevoli dei rischi di un “eccesso di culture”, quando con l’intento del dialogo si finisce per enfatizzare l’alterità, abbiamo continuato negli anni a sottolineare che il nostro laboratorio è “interculturale” e “meticcio”, per rivendicare il tentativo di mescolare le provenienze di chi lo ha frequentato, da diversi continenti e diverse province dell’esistenza: studenti e pensionati, lavoratori e disoccupati, autoctoni e fuorisede, migranti e stanziali, italiani madrelingua, italofoni, stranieri, seconde generazioni, profughi, rifugiati, richiedenti asilo…





Eppure quest’anno, per la prima volta, ci siamo interrogati sul senso di evidenziare ancora questa caratteristica, non perché la ritenessimo superata, ormai entrata nell’ordine delle cose e della società, ma al
contrario perché l’identità meticcia della nostra iniziativa è stata soffocata dalle “politiche di accoglienza” del nostro paese, tanto simili, nella loro natura paradossale, al “Ministero della Pace” di orwelliana memoria. I tagli ai progetti per il sostegno dei richiedenti asilo, e più in generale, l’interesse criminale a relegare nella clandestinità i migranti di alcuni paesi (e di alcune tonalità di pelle), hanno reso sempre più difficile l’accesso al nostro laboratorio per chi non rientra in categorie ben precise (universitario, cittadino italiano, in regola con i documenti…). È infatti evidente che più si rende precaria, instabile e priva di prospettive la vita di un individuo e più sarà difficile che egli possa dedicarsi a un’attività culturale, che richiede frequenza assidua e continuata per diversi mesi, com’è quella di un laboratorio di scrittura collettiva. E questo vale per qualsiasi attività del genere, ovvero per tutte le dimensioni che vanno al di là della sopravvivenza, dello sbrigare faccende burocratiche, timbrare carte, sostenere colloqui, preoccuparsi per la propria condizione di persona sotto ricatto. In una parola, tutte quelle attività che invece permetterebbero il meticciato, l’incontro, la nascita di un paese culturalmente rinnovato.
Alla fine, abbiamo deciso di mantenere le vecchie etichette, provando piuttosto a ragionare su questa scomparsa dell’Altro in chiave narrativa, facendone il tema dei nostri racconti, l’ipotesi fantastica che accomuna tutte le trame: “Cosa succederebbe se sparissero gli stranieri?” - una domanda mutuata dall’esperimento di sciopero sociale “Un giorno senza di noi”, per dimostrare cosa sarebbe l’Italia senza il contributo di lavoro, di lotta e di democrazia che le portano i migranti quotidianamente.





Nel frattempo è cambiato il governo, sono cambiati gli slogan, ma molto difficilmente, crediamo, cambierà la musica, quella che in tono sempre più funebre suona ai confini della Repubblica, fin dai tempi della Legge Martelli, con la sua “programmazione dei flussi dall’estero”.
Il problema dunque si ripeterà anche il prossimo anno e di nuovo dovremo domandarci come riuscire a mantenere meticcio e interculturale il nostro laboratorio, in una nazione che ancora una volta si crogiola nella propria autobiografia, nel culto dell’unanimità, nell’odio per qualunque eresia.










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