A tu per tu con Paola Di Nicola






Dopo essermi appassionata al libro La mia
parola contra la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio
(HarperCollins
Italia, 240p., 2018) ho voluto con tutta me stessa incontrare e intervistare
l’autrice, la magistrata Paola Di Nicola, nominata Wo/Men Inspiring Europe 2014
dall’EIGE (European Institute for Gender Equality). Con il suo sguardo
obiettivo, fermo e al contempo materno, frutto di un continuo studio e di
attente riflessioni prima di tutto su se stessa, Paola ha saputo cogliere
quelle sfumature molto spesso invisibili, che muovono ancora i pregiudizi di
genere nelle aule di tribunale e nella società influenzando radicalmente una
visione d’insieme che diviene così parziale e ancora immersa in una cultura
patriarcale. E’ stato un onore approfondire con lei questi temi e rendermi
conto di quanta strada ancora dobbiamo fare. Tutti insieme.





Mamma, magistrata, scrittrice. Come riesci a
conciliare tutti questi impegni?





Mi entusiasma ognuno di questi pezzi della mia vita e nessuno è
esterno all’altro. Li ritengo tutti necessari perché tutti vengono arricchiti
reciprocamente.





Nel tuo ultimo libro “La mia parola contro la sua” accenni
al fatto che  le donne siano cresciute
con lo stereotipo della femmina come principessa da salvare portandole a
sentirsi fragili e incompetenti. Mi vengono in mente le principesse Disney come
Cenerentola che incontra il Principe durante il ballo e, senza tante parole,
s’innamora di lui ed è sempre grazie a lui che acquisisce un ruolo nella
società. Negli ultimi anni però i cartoni animati stanno mostrando una figura
più emancipata di giovane donna: basta guardare Ribelle, Frozen, Oceania. Che
cosa ne pensi di queste evoluzioni? Credi che stia avvenendo un cambiamento?





Non penso che ci sia una grande evoluzione nell’educazione delle
bambine. Perché l’educazione passa dai modelli che hanno i genitori. Anche se
ci sono dei cartoni animati che rompono gli stereotipi di genere credo che
nell’ambito famigliare noi padri e madri continuiamo a trasmettere certi
modelli quotidiani e concreti. A prescindere dai film che hanno questo coraggio
di rottura vedo che esiste l’80% delle trasmissioni tv in cui le donne sono
semi nude e gli uomini in frac. Non ci sono donne che parlano di economia e
finanza. Credo che la struttura resti radicata nel portare le ragazze a
rimanere delle principesse da salvare. Per non parlare dei libri di scuola.





Nel secondo capitolo ti rivolgi agli uomini con accorati appelli
come ad esempio: “Vi chiedo di insegnare ai vostri figli maschi a piangere,
a leggersi dentro, ad accettare la fragilità e il limite. A spiegare il gioco
della seduzione che non è consumare l’altra persona come una birra ma, come voi
stessi mi avete insegnato, conoscere e riconoscerne il piacere, esplorarne i
desideri rispettandola e fermandosi davanti al suo disagio: perché alle donne
non piace la violenza”.
Che tipo di atteggiamento noti nei ragazzi di oggi?





Nella mia esperienza limitata ristretta a un contesto molto
protetto e formato su un certo tipo di educazione, noto che i ragazzi hanno un
rispetto verso le ragazze che nasce proprio da una dignità reciprocamente
riconosciuta. Però non mi sento di dire che sia l’ordinarietà delle
generazioni. Vedo che ci sono loro coetanee che nascono, vivono e crescono
credendo nel loro statuto di donne libere e che questo permette anche ai maschi
di essere coerenti nel rispettare questa loro affermazione. Ho fiducia nelle
nuove generazioni.





Hai deciso di aggiungere al cognome di tuo padre quello di tua
madre. Come pensi si potrebbe cambiare questa regola statale dal momento che di
generazione in generazione i cognomi si andrebbero a sommare portandoci comunque
a dover fare una scelta?





Sarebbe indispensabile una legge dello Stato che, come accade nei
paesi del Centro e Sud America o in Spagna, imponga di avere il cognome della
madre, una condizione preliminare per una cultura della dignità di entrambi i
genitori come riconoscimento dell’identità sociale. Questo è il passaggio
legislativo necessario. Ci sarà comunque un momento in cui si dovrà fare una
scelta e a quel punto ciascuno di noi deciderà. E questa è una scelta che
impone a ciascuno di pensare. Qual’è il pezzo della propria identità che
ritieni di essere mantenuto? Adesso non abbiamo questa libertà. 





Affermi che la nostra cultura rafforza il pensiero che la violenza
sulle donne è qualcosa di naturale. Se guardiamo a quello che sta accadendo in
Italia e nel mondo e pensiamo al passato vediamo che questo è un problema ben
radicato nella nostra storia. Ne usciremo?





Certamente, questo avverrà nel momento in cui anche gli uomini
prenderanno parola e rinunceranno in prima persona alla loro rendita di posizioni
e non lasceranno che la violenza sulle donne sia un problema delle donne. Ne
usciremo quando avremo uomini coraggiosi che rinunceranno al potere
incondizionato che hanno avuto per millenni. Il che non vuol dire che a quel
sistema di potere si sostituisca un potere femminile. Uomini e donne devono
accettare un sistema non fondato sulla prevaricazione di un genere sull’altro.
Le cose cambieranno quando accetteremo un potere condiviso. Una gestione
condivisa e paritaria.





E’ famosa la tua sentenza per il caso definito lo scandalo
sessuale della Roma bene
che vedeva coinvolto un uomo adulto e una
minorenne. Oltre al carcere hai richiesto infatti un risarcimento in cultura
anziché in denaro: libri e film sul pensiero delle donne. Nel libro spieghi
bene come sei arrivata a questa decisione. Nel tempo c’è stato un cambiamento?
Hai ispirato altri tuoi colleghi a intraprendere nuove strade?





Assolutamente no. Però posso dirti che dal 2 maggio è iniziato uno
spettacolo teatrale che è stato presentato a Milano e girerà tutte le scuole
ispirato alla mia persona e a questa sentenza che sotto il profilo culturale ha
avuto delle ripercussioni di carattere civile. È un passaggio importante. Ho
prospettato un ordine simbolico diverso che per millenni ha visto come unico
strumento risarcitorio possibile il denaro e quindi il potere. Invece
quell’operazione di cui parlavo prima, ovvero rompere l’ordine simbolico
proponendo coscienza e conoscenza appartenenti all’identità femminile,
evidentemente ha bisogno di tempo di elaborazione in un contesto come quello
della magistratura che dal punto di vista strutturale è deputato alla
conservazione di un ordine costituito, seppure in base all’apertura dei
principi costituzionali. Ci vuole tempo.





Secondo te quanto?





(Risponde con una risata, ndr).





Oltre a leggere il tuo libro che consigli pratici quotidiani
daresti agli uomini e alle donne per iniziare a innescare un cambiamento al
fine di non perpetuare stereotipi nocivi al nostro sguardo sul tema femminile?





Di osservarsi e osservare intorno a sé se la presenza del maschile
e del femminile è una presenza fondata sulla pari dignità. Nei ruoli professionali,
nelle rappresentazioni degli spettacoli e anche nell’educazione che viene
impartita ai nostri figli e alle nostre figlie, osservarlo attorno a una
tavola. Osservare e quindi modificare i propri comportamenti a seguito di
questa osservazione. E che gli uomini rinuncino alla loro modalità proprietaria
rispetto a ciò che li circonda. L’altro giorno ho visto una bella ragazza che
passava sul treno. Tutti i maschi la osservavano e lei lo sapeva. Gli uomini
avevano una condizione di presa su di lei. Immagina te stessa. Se tu dovessi
passare tra due ali di maschi proveresti disagio? Penso di sì. Penso che ci sia
sempre un senso di disagio. Non penso che possa crearsi una situazione inversa.
E questo è l’atteggiamento predatorio maschile interiorizzato che porta a una
sensazione o a uno stato d’animo di soggezione del femminile. Quando noi ci
accorgeremo di questo e lo vedremo in modo palpabile nei nostri comportamenti
comprendendo quanto sia fastidioso lo sguardo di un uomo quando non corrisposto
alla volontà di chi viene osservata, sarà un passaggio importante. Penso che
sia suo diritto osservare una donna ma è ben diverso dal guardare in maniera
continuativa e invadente.  Io non mi
permetterei mai di farlo con un uomo. È una questione di rispetto per l’altro.
Quando cammino con mia figlia e ci sono persone che la guardano in maniera
insistente io vado a chiedere a quelle persone perché lo fanno. Non dire nulla
è come accettare questa morbosità, accettarla come se fosse un diritto. E’ una
questione di dignità e di rispetto dell’altro.


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