«Il meglio dell’umanità». Un laboratorio di scrittura accogliente.


Il progetto ormai decennale del
Laboratorio di scrittura meticcia, intende rispondere in prospettiva culturale all’incremento
di presenze altre e inattese nella nostra società, in capo ai percorsi
variabili delle migrazioni. Il plurale vuole contrastare il linguaggio mediatico
che evoca invasioni e orde sconvolgenti, ribadendo il rifiuto di messaggi costruiti
sulla grossolana efficacia dello stereotipo e del pregiudizio. Richiamando molteplici
traiettorie, frutto di scelte personali, non solo restituiamo ad ogni persona
il diritto alla libera mobilità, ma in esse possiamo riconoscere l’archetipo narrativo
del Viaggio dell’eroe (J. Campbell), in
cui il giovane affronta ostacoli e barriere, scontri e persecuzioni, sino a
raggiungere una maturazione soggettiva che ne consente l’integrazione sociale.





I forti movimenti di popolazioni verso
il nostro territorio, in tempi concentrati, hanno esasperato le difficoltà di
radicamento, mettendo in discussione paradigmi incerti di identità nazionale,
di cultura regionale, di frattura Nord/Sud, di globalizzazione produttiva e di
vissuto. Elementi fluidi che ancora segnano l’Italia con dinamiche di faticosa
interpretazione, con gli strumenti forniti da un sistema scolastico che
emargina la geografia, la storia contemporanea e delle religioni, sfiora lingue
e culture extraeuropee, lasciando spazio al tendenzioso caos della rete.





Se davanti ci compaiono umani a
figura intera, non solo braccia da sfruttare, ma individui dotati di capacità
intellettuali ed emozionali, il gesto di abbracciarli risulta spontaneo ma
ingenuo, quando i suoi esiti non conseguano reali mutamenti per entrambi gli
interlocutori. L’offerta di accoglienza, seppure in una nicchia intellettuale, non
può che risultare (auto)consolatoria senza mettere in discussione gerarchie e ruoli.
Siamo convinti che occorra di nuovo attingere alla marginalità feconda dell’insegnamento
di Don Lorenzo Milani, quando lo scomodo sacerdote si rapportava a individui incongrui
rispetto a uno slancio di coerenza nazionale. Nella fase postbellica, nel pieno
di un mutamento epocale, egli rimarcava (e poneva come obiettivo condiviso dai
suoi allievi) la rivoluzionaria coerenza nel rivolgere particolare attenzione a
quei giovani emarginati, stigmatizzati e confinati, che in ogni lato del mondo “aspettano
di essere fatti eguali” attraverso il movimento e il mutamento sociale. Il che comportava
di sperimentare modi e strategie di acculturazione attraverso esperienze collettive
e pratiche condivise, fuori dagli schemi gerarchici della pedagogia ufficiale,
che gli consentiva di antivedere processi storici di là da venire, e i metodi
per affrontarli: «In Africa, in Asia, nell'America
Latina, nel Mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città,
milioni di ragazzi aspettano di essere fatti uguali. Timidi come me, cretini
come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell'umanità» (Scuola di Barbiana, Lettera
a una professoressa
, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, p. 80).





Risulta utile accennare ad alcuni
aspetti del progetto del nostro laboratorio collettivo di scrittura, che non ha
interrotto di sperimentare adattamenti e aggiustamenti, richiamati nelle presentazioni
dei successivi volumi editi da Eks&Tra. Sull’ipotesi di fondo incidono le variazioni
complesse dei processi di mobilità, così che negli anni sono emersi diversi profili
degli allievi di origine non autoctona: alla partecipazione di immigranti, con personalità
fornite di progettualità e professionalità, iscritte in una stanzialità da cui
discendono le presenze di figure di seconda generazione, si sono sostituiti in
anni recenti profughi o richiedenti asilo, per i quali spesso il suolo italico è
solo transito per ulteriori agognati approdi.





Questo rende aleatori temi pressanti
sino a poco addietro, come quello della cittadinanza, testimonianza imbarazzante
del ritardo di strategie inclusive da parte delle istituzioni sul versante del
cosiddetto ius culturae, a consentire
una socialità fondata sui valori della democrazia libertaria, fraterna ed
eguale. Tali riferimenti assumono ancor più rilievo a fronte del estremismo
fascistoide, gerarchico, razzista e intollerante, che prolifera dalle sponde
mediterranee alle pianure centro-orientali del continente; un background culturale del degenerato
progetto europeo, che condiziona i processi decisionali delle istituzioni,
arrendevoli al pensiero rancoroso che domina masse impoverite e disorientate, pronte
a scaricare su strati ancor più deboli e marginali i fantasmi terrorizzati del
proprio inconscio, non certo placati da muri e barriere.





Questi crescono grazie a una
narrazione articolata su una elementare semplificazione, che tutto riduce a un
binarismo arcaico di: amico/nemico, noi/loro, casa/ignoto,
consolatorio rispetto a complicanze e ombre della globalizzazione. La quale poi,
spietatamente, lo utilizza nei rapporti fra stati e nella accentuata
stratificazione gerarchica e sociale interna, richiamando a un perenne stato di
emergenza di fronte all’incognita dell’alterità, suscitando ansie di sicurezza attentamente
coltivate quale strumento di governo, che spesso travalicano in pulsioni ad annientare
l’impurità.





Da tali premesse deriva l’esigenza di
un deciso capovolgimento dello storytelling
imperante, che, inserito nel naturale incontro quotidiano fra persone comuni,
offra un terreno per processi di convergenza e di aggregazione incentrati su un
elemento immateriale, gratuito, abitudine elitaria e di tradizione, com’è la
letteratura ancora in grado di sintonizzarsi con l’attualità. A questa risorsa hanno attinto i nostri corsi, imponendo una
svolta all’esperienza iniziale del concorso riservato ai migrant writers, promosso da Eks&Tra dal 1994 e poi protratto in
collaborazione col Dipartimento bolognese di Italianistica, nel quale si
puntava sull’esemplarità di figure di spicco della popolazione migrante, capaci
di applicare le risorse italofone nell’orizzonte creativo di prosa e poesia.





Perciò la scelta di processi veramente
collaborativi nelle nostre attività testimonia come la messa in comune dell’ideazione
narrativa e la sua formalizzazione, che non necessita di una scrittura eccezionale,
possono svolgersi col contributo attivo anche di richiedenti asilo, accolti nei
labirinti dei campi e delle strutture di accoglienza. L’italiano parlato è
strumento di connessione con la disponibilità di studenti attivi, ai quali si
prospettano meno onerosi, ma non meno complessi tragitti di espatrio. Lo sforzo
di queste storie migranti è di
consentire ai nuovi arrivati di superare la passività di ospiti sospetti, attraverso
un potenziamento dell’espressività, stimolata da un rapporto reciproco, dato
che solo nella relazione fra individui diversi La cultura ci rende umani (Torino, 2018).





L’esperienza sviluppata dal Laboratorio
punta a mettere in rilievo la competenza nell’insegnamento dell’italiano L2,
ruoli attivi nell’associazionismo, curiosità intellettuali di studenti che incontrano
l’offerta non frequente della scrittura creativa, come disciplina universitaria,
accogliendo altresì allievi motivati da libera passione, formando classi che
esprimono varietà di percorsi, di età e di profili professionali. L’efficacia
di tale sforzo, in più casi, ha superato l’occasione didattica, consentendo ad
autoctoni e migranti di dar vita ad autonome pubblicazioni[1].
Sono emerse figure capaci di innestare la recente memoria del Togo (Abdou
Samadou Tchal Wel)
o del Niger (Ide Maman), in testi dai contorni
alternativi rispetto all’oggetto narrativo o al tema poetico, segnati da
disinvolti passaggi fra idiomi coloniali, la dimensione internazionale
dell’arabo, il materno bambaraa o hausa, offerti in buon italiano.





Esperimenti di pur breve convivenza intellettuale
aiutano a incrinare stereotipi di mondi troppo lontani, che perdono l’aura di misteriosa
e terrifica minaccia in presenza di protagonisti reali. E questo a seguire la
vocazione cittadina alla tollerante convivenza in una universitas dal millenario profilo, arricchito da plurime nationes, che andrebbe meglio
valorizzato e raccordato alle traiettorie dei tanti studenti, che vi convergono
dalla persistente pluralità del territorio italiano.





La coscienza che il percorso sul
piano creativo e dell’immaginario costituisce un surrogato del pieno possesso
di cittadinanza, offre esiti particolari, che evitano forzature di comodo e
strategie edulcorate. Nelle raccolte di racconti (i materiali antologici dei
corsi sono reperibili in: http://www.eksetra.net/libreria/), i personaggi e le azioni che li muovono
raffigurano spesso personalità frutto di reale meticciato, in contrasto con profili
rigidi di culture e nazionalità. L’istanza di esprimersi attraverso un gioco
reciproco, attenua l’incombere dell’autobiografia e questo anche discende dai
profili dei partecipanti, con larga presenza di cosiddette G2 tra gli studenti,
protagonisti poi di esperienze di transiti lavorativi o di scambi Erasmus, con trascorsi in orizzonti
europei, dalla Scandinavia ai Paesi Baltici, al Belgio. E certamente non va
dimenticato che l’assetto narrativo a dimensione collettiva smorza tentazioni
di esibizione individuale, confermate nel taglio ironico dei brevi profili (Io in 10 righe), che corredano i volumi.





Altrettanta libertà consente il tema proposto,
punto d’avvio e di confronto da sviluppare su varie declinazioni convergenti
nella stesura a più mani, grazie alla maieutica leggera di Wu Ming 2, che in
qualità di tutor porta l’attenzione sugli
aspetti strutturali degli esercizi narrativi, coi loro passaggi canonici,
favorendo l’emergere di soluzioni dal dibattito sul caso specifico, non sempre
riconducibile a sequenze prefisse, rivolgendosi a modi narrativi tipici dell’immaginario
giovanile globalizzato, quali film, serial tv, graphic novel, che suggeriscono la necessaria fluidità di scansioni,
tempistiche, episodi.





L’efficacia dell’impostazione corrisponde
al ventaglio di scelte di modi narrativi e di generi letterari, dalla favola alla
fantascienza, dal crudo realismo all’atmosfera emozionale, l’interesse per la
lingua o il gergo della rete e la ricostruzione del parlato dialettale della
migrazione nostrana, i tratti epici o la memoria amara dell’espatrio bellico forzato,
la traccia immaginifica del percorso orientale accanto alla tragedia dei
naufragi mediterranei. L’istanza di un reciproco rispetto, la necessità di includere
in una sola voce esperienze molteplici e un amalgama di sentimenti, le scelte
strutturali, i tratti del simbolico che assorbono difformità di provenienze
culturali, condizioni sociali ed esperienze soggettive, scaturiscono dai
profili di una gioventù studiosa che si accosta alle scommesse del racconto,
provenendo spesso da efficaci esperienze di aiuto ed assistenza ai richiedenti
asilo. Ne scaturiscono, senza dimenticare le esigenze materiali, percorsi di empowerment complessivo di soggetti che potranno
avvalersi, per una reale agency, anche della pregnanza delle risorse
culturali.  





Pertanto si è cercato di mantenere un
assetto modulabile del Laboratorio a seconda della varietà dei contesti e del mutare
dei partecipanti, inserendo occasioni di vivacità dialogica oltre la fase di costruzione
dei testi. Essa prosegue nelle presentazioni in ambito universitario, nelle librerie
o nelle manifestazioni sensibili al tema delle mobilità delle culture, dando
spazio alla voce diretta dei giovani narratori chiamati ad affrontare anche la consacrazione
pubblica quali autori.





Tali incontri intendono ribadire i fondamentali
principi dell’ospitalità fissati nella nostra civiltà e nel canone letterario sin
dalle Supplici di Eschilo, e che Georges
Didi-Huberman evoca come necessari a risarcire il senso di frustrazione e di
immobilismo paralizzante che stravolgono l’Europa, incapace di riconoscere la spinta
fondamentale per l’essere umano rappresentata dal desiderio di mobilità, trasformato
in crimine alla pari di assurdi delitti di solidarietà, atti di resistenza alla
frenetica erezione di muri ostacoli barriere difese lame e fili spinati, porte
e porti sbarrati, che strangolano in un’atmosfera mortifera la vita e
l’intelligenza degli impauriti e paralizzati suoi stessi abitanti. Perciò assume
particolare valore ogni proposta che contrasti il dilagare di una cieca
politica securitaria e populista, avvalendosi dei potenziali offerti dagli
strumenti creativi (immagini, suoni, parole, gesti e azioni), così da restituire
fondamentale dignità ad ogni persona, specialmente a coloro che, pur nella limitata
temporalità del passaggio, esprimono una missione profetica riconosciuta da
Annah Arendt o Pier Paolo Pasolini nei rifugiati dei loro tempi, quali testimoni
di un possibile futuro realmente umano.





Di questa ricostruzione del nostro
esistere come italiani ed europei abbiamo urgente necessità, nel momento in cui
i burocratici e spietati organismi comunitari si concentrano su un’inattuabile
strategia di frontierizzazione transcontinentale,
sulla quale riflette Achille Mbembe, basata sull’espansione del dominio
postcoloniale, disegnando l’utopia panottica su una gigantesca spazialità, intrisa
solo di perdita e di dolore, col ricorso a strumenti tecnologici che generano
uno spazio vuoto (di umanità). Da esso emergono corpi abietti, esemplari di
ripugnanti masse di una subumanità indistinta, in quanto ridotti a spettrali
forme di nuda vita, dai dispositivi di filtro ed estraniazione nei fortunosi
approdi al nostro continente, dove perciò non gli si attribuiscono nomi, volti,
documenti e soprattutto possibilità di parola.





Contro tutto questo opera il nostro progetto,
dando preminenza ad una tecnologia forse sorpassata come la scrittura,
riconoscendo ad ogni soggetto potenziali paritari, conferendo loro un’identità
culturale che infrange l’anonimato stigmatizzante del sans papiers, invertendo l’ossessiva diffusione dell’ansia e del sospetto
verso il nuovo e lo sconosciuto. Se la bieca narrazione imperante punta sulla dialettica
panico/rassicurazione, con la pretesa di esibire incontrastata la
capacità di respingere l’estraneo e il diverso, tanto più esigente diviene la
necessità di pratiche di capovolgimento di questi dispositivi sociali, pur
nella coscienza della fragilità di una prospettiva intellettuale, capace
tuttavia di affermare il rifiuto della politica dominante, costruendo percorsi
di resistenza e occasioni che dimostrino la possibilità di fare di ogni persona
esseri perfettamente a noi eguali.





La proposta del racconto collettivo funziona dunque come proclama di una disponibilità a misurarsi attraverso un sostegno condiviso, rispetto ad una tragedia epocale, per la quale è doverosa la funzione sincrona del testimone, scansando l’oggettiva convergenza fra la grigia passività dell’osservatore qualunquista e il rinvio al recupero tutto ideologico di una memoria postuma alle contingenze traumatiche e ai loro meccanismi repressivi, dimostrando perciò che qui e ora non abbiamo perso la capacità di parlare, dare voce e formare una gioventù di noi migliore.





Fulvio Pezzarossa





Professore associato Università degli Studi di Bologna - Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica per l'insegnamento di "Sociologia della letteratura"










[1] E. Losso,
I
disintegrati. La guerra di San Barbaso
, Castelfranco
Veneto (TV), Panda, 2015; I. Amid, Malinsonnia, Tricase (LE), Libellula, 2017; G. Mohammed, La vita non è una fossa comune, Forlimpopoli (FC), L’arcolaio, 2017; ma specialmente J.
Karda, Scischok, Leonforte (EN), Euno, 2018, primo collettivo italiano tutto
al femminile, formato da Claudia Mitri, Vanessa Piccoli, Lolita Timofeeva, al
quale anche collabora Laila Wadia.







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