Quante volte ci siamo imbattuti in una frase di un documento più o meno ufficiale che ci ha lasciato senza parole? Incomprensibile!
Frasi in burocratese, termini astrusi, allocuzioni troppo tecnico giuridiche (già "allocuzioni" è da ansia) una pletora di avverbi e di gerundi, e magari un condimento di “posto che” e “nella misura in cui”. Finirei con un musicale “alquanto”. Se non ora quando.
Parlare chiaro è pensare pulito, diceva un mio maestro di giornalismo. Sacrosanto. Diciamolo: una società sana usa parole chiare. Trasparenti. Dire e non dire, far capire e non chiarire è sempre segno di una certa opacità. Magari indolente e non dolosa ma sempre opacità
Non c’è dubbio: la salute di una società si misura anche dalle parole chiare che usa. E per società possiamo intendere tutti noi che facciamo parte di un Paese o di una città, un gruppo definito o una società industriale: il compito di essere chiari, trasparenti e veri non cambia.
Le parole non solo sono macigni – come si dice – ma sono indice della salute di un pensiero, di un gruppo, di un contesto sociale e storico.
E’ di questi giorni la notizia dell’accordo tra Consiglio di Stato e Accademia della Crusca, l’istituzione culturale che tutela la lingua italiana, per “sentenze scritte in maniera più chiara”. Quanti di noi si sono sentiti persi e impotenti davanti ad una sentenza, ad un atto giudiziario, ad uno scritto burocratico? Vedo tante mani alzate.
Ma Il problema del linguaggio trasparente e della lingua usata con precisione e sobrietà non riguarda solo le sentenze degli organi giudiziari o giurisdizionali, riguarda tutti e tutto. Tutto dovrebbe essere scritto in maniera comprensibile: i cartelli pubblici e privati e i regolamenti, le ricette come i bugiardini, le illustrazioni delle medicine, i contratti come le varie normative che ormai spuntano ad ogni angolo.
Ma, diciamolo, dovrebbero essere scritti in maniera comprensibile anche certi articoli. Anche noi giornalisti talora o spesso dovremmo fare un esame di coscienza e lessicale.
Diceva Federico Scianò, un grande giornalista purtroppo prematuramente scomparso una quindicina d’anni fa, a proposito di testi giornalistici: “Vedi Fabrizio se un pezzo riesce bene e si fa capire in un minuto è perché l’autore ha usato parole croccanti. Se invece usa parole flaccide, cioè senza nerbo, non pensate per quel contesto, è ovvio che il pezzo, l’articolo, o il servizio televisivo anche se ha belle immagini sarà più noioso, o addirittura fuorviante”.
Già: parole croccanti e parole flaccide. Non solo e non tanto parole belle o brutte, parole giuste o parole sbagliate ma parole che risultano efficaci e parole che non lo sono.
E’ proprio vero, nella pratica lo si riscontra giorno dopo giorno. Ricordava sempre Scianò che “parlare chiaro è pensare pulito”. Se ci pensate una certa connessione si può trovare tra pensiero e parole.
In un recente incontro a Imola sul rapporto tra giornalismo e internet, presente il direttore Ferruccio de Bortoli, ho rammentato quell’insegnamento di Scianò. La parola flaccida cioè non pensata, che è casuale, approssimativa, ambigua produce frasi deboli piene di luoghi comuni, di inutili stereotipi, e quindi noiose non ficcanti, non chiare.
Invece la parola croccante cioè precisa, strutturata, adeguata per quel contesto, che risulta quasi musicale, produce frasi forti cioè vere, trasparenti, essenziali, incisive, talora memorabili. In fondo le parole e le frasi svolgono la loro funzione: far ricordare qualcosa.
Al termine dell’incontro imolese si è avvicinata una signora e mi ha ringraziato per quella descrizione e mi ha detto: “Vede io sono un avvocato e non immagina quante frasi deboli vengono usate nei nostri ambienti. Adesso nei dibattimenti ricorderò anche in tribunale la differenza tra le parole croccanti e le parole flaccide. Grazie grazie”. E se ne va in bicicletta.
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