Del caso “Salone del libro di Torino” credo non sia nemmeno il caso di parlarne, visto il can can inopinatamente sollevato. Per chi ne avesse perso memoria, riassumo ricordando come, all'annuncio della partecipazione alla kermesse torinese di Altaforte, l’editrice vicina a CasaPound, molte altri editori grandi e piccoli ed altrettanti autori (forse in cerca di pubblicità o affermazione) avessero comunicato la propria mancata partecipazione in dissenso alla inclusione o per paura di esserne in qualche modo contaminati inducendo la direzione della kermesse a smantellarne lo stand e sollevando in tal modo le accuse dell’editore Francesco Polacchi contro quella che lui definisce la mafia dell’antifascismo nonché per le molotov che, a suo dire, sarebbero potute essere lanciate contro lui e il suo stand (a questo proposito bisognerebbe ricordare a lui e ai suoi sodali, anche se credo sarebbe fiato sprecato, come storicamente a bruciare i libri siano sempre stati i nazi/fascisti).
Se ci torno sopra, quindi, è solo perché la
querelle torinese, ha sortito un altro
effetto, un’inaspettata e forzosa commistione con il caso Cesare Battisti. Sono
in molti, per correttezza soprattutto fra i frequentatori anonimi della rete, che hanno contrapposto il veto alla casa editrice fascista alla
pubblicazione dei romanzi del terrorista Battisti
(in sostanza, gli argomenti si riducono a un “… ma come, ci si
scandalizza tanto perché una casa editrice di destra espone le proprie
produzioni al salone del Libro e nessuno ha detto nulla quando case editrici
ben più famose pubblicavano le opere di un terrorista …”).
Incidentalmente, inoltre, noi de IlTiro abbiamo accennato al Battisti romanziere parlando di Fred Vargas (http://iltiromagazine.it/fred-vargas/), citando il suo excursus giudiziario, l’attività di scrittore, la fascinazione da lui (o meglio, dalla sua condizione di rifugiato) esercitata sulla borghesia intellettuale (la famigerata per certi versi gauche caviar) francese e non solo. Attrazione che portò a ripetuti appelli, manifestazioni, levate di scudi a suo favore. Unendo le due cose, l’incidente torinese al fatto che la parabola umana (almeno quella riguardante quegli anni e quelle accuse) sembra (SEMBRA, attenzione) conclusa, si può provare ad avvicinarsi alla produzione di Battisti cercando di analizzarne il solo valore artistico ben sapendo, al contempo, come la sua produzione letteraria sia in ogni caso fortemente legata alla sua parabola umana e politica.
Come sempre bisognerebbe fare (ed a maggior
ragione nel caso specifico visto che trattiamo di un uomo condannato per
terrorismo, evaso, espatriato in Francia, ricercato internazionalmente, per il
quale viene richiesta l’estradizione, estradizione prima negata grazie a quella
dichiarazione di estrema civiltà, anche se alle volte usata con troppa
disinvoltura, conosciuta come Dottrina Mitterand e poi concessa quando il sentire politico si sposta decisamente a
destra sull’asse Sarkozy/Berlusconi, e per questo transfuga in Brasile dove
dapprima viene incarcerato poi rilasciato ed infine, questione di queste ultime
settimane, consegnato alle autorità italiane a sancire il fil
noire tra l’Italia salviniana e il Brasile
bolsonariano, ed intanto, tra una banlieu ed una favela, tra amori fuggiti ed amori traditi, tra appelli di intellettuali e
sentenze in contumacia, diventato caso letterario internazionale) anche per
quanto riguarda la letteratura di Battisti si devono considerare diversi, se
non piani di lettura, ambiti di riflessione.
Il primo, ovvio, che bypasseremo in questa sede riguardando esso le vicende giudiziarie che non saremmo in grado di commentare mancando conoscenze e capacità, umano ed emozionale. Un secondo, ed è questo che ci interessa maggiormente parlando, o cercando di farlo, di letteratura, editoriale e letterario.
E dei due aspetti è proprio dall’ultimo, quello letterario che inizieremo. Battisti ha
scritto molto, più di una dozzina di libri romanzescamente autobiografici
soprattutto in francese e brasiliano (le lingue che più necessariamente ha
frequentato nel suo quasi quarantennale fuggire). Di questi solo alcuni sono
tradotti in italiano, tra gli altri “L’ultimo sparo – un delinquente comune
nella guerriglia italiana” (DeriveAPPRODI 1998), “L’orma rossa” (Einaudi
1999) e “Faccia al un muro” (DeriveAPPRODI 2002).
Le trame, si è detto, sono autobiografiche e il protagonista ricalca, a grandi linee, quello che è stato Battisti (o che gli sarebbe piaciuto essere) nel susseguirsi delle sue avventure umane.
Si va quindi dalla “… storia di un gruppo di militanti rivoluzionari dei cosiddetti anni di piombo che diventa metafora del destino di un pezzo di generazione inghiottita dal fuoco della lotta armata e deriva ineluttabile verso uno scontro campale che nessuno si sente di affrontare, e a cui nessuno, contraddittoriamente, è disposto a sottrarsi: una guerra perduta in partenza, ma che alla fine si ritiene valga la pena di essere combattuta …” (“L’ultimo sparo”) al racconto “… della storia italiana di un passato non piú recente per portare alla luce in forma romanzesca la collusione del Partito Comunista con i piú reazionari tra i poteri dell’Occidente industrializzato, ipotesi narrativa straniante, ma portata avanti sul sottile filo del dubbio e sull’orma di indizi storici. E così il protagonista ricostruisce i momenti salienti della vita del Pci sotto la guida di Togliatti. Ma il Migliore era veramente tale, o anche lui era un uomo compromesso dal devastante gioco del potere arrivando perfino a decidere che la Dc vincesse le elezioni in Italia al posto del Pci? E in mano a chi è finito il leggendario oro di Mussolini in fuga? …” (“L’orma rossa”) per giungere alla consapevolezza di "… essere rimasti in pochi a non credere che i furbi siano quelli che hanno ragione, e ciò non vuol dire che noi siamo i matti, semmai, e' vero che siamo molto soli …" (“Faccia al muro”).
Storie, e collegamenti, come si evince di grande interesse. Quello che manca, purtroppo, nel Battisti scrittore è proprio la scrittura. Che è piatta e banale, ripetitiva ed infantile (nel senso deteriore del termine). Debitoria a quella dei grandi, siano essi Chandler o Manchette, Malet o McBain, del genere da lui scelto per raccontare e raccontarsi, il noir o polar, e dei quale ricalca stancamente i cliché e i vezzi ma senza riuscire a farli propri, quei cliché, né a farli decantare, i vezzi, in una sinfonia corale e compiuta. Ed è proprio questa inabilità a riportarci al secondo aspetto che ci interessa e cioè a quello editoriale. A quella particolare condizione (e che purtroppo per certi versi potrebbe riportare alla chiosa iniziale, quella che denunciava un presunto asservimento intellettuale della sinistra, una certa sinistra che terrebbe in mano l’editoria, la cultura e l’intellighenzia) che Robert Hughes in un suo libro ha definito “La cultura del piagnisteo” stigmatizzando quelle minoranze (là etniche, in questo caso politiche e/o sociali) che pretendono un posto nella letteratura o nell’arte a risarcimento di torti (veri o presunti) patiti e che non bastano certo per essere considerati scrittori. Semplicemente scrittori, attenzione, non grandi scrittori.
Sia gli uni sia gli altri, infatti, sono qualcosa
di completamente diverso da Cesare Battisti.
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