Alberto Bucci, uno degli immortali della pallacanestro


Valeva la pena aspettare una serata come quella di mercoledì 13 marzo per tornare a parlare del basket bolognese.





Al di là della cronaca spicciola (per la quale rimandiamo ovviamente a chi di mestiere fa quello) non si può non ricordare come la Fortitudo, questo nel weekend, abbia ormai staccato se non matematicamente almeno come autostima e imposizione della legge del più forte, il biglietto per la risalita, tanto agognata quanto normale (se per normale si intende una gestione finalmente“sana” della squadra e della società) nulla sembrando poterle impedire di non perdere 3 partite delle ultime 6 rimaste avendone perse 3 in tutto il campionato fin qui giocato.













La Virtus adesso. Che in una sera sola ha toccato il tasto del passato attingendo a piene mani alla memoria dolce e struggente e quello del futuro presentando coach, giocatore e tecnologia di altro pianeta rispetto al panorama traballante del basket nazionale.









La memoria, quindi. Che non può non personificarsi nel ricordo e nel tributo ad uno degli immortali della pallacanestro non solo italica.  A palazzo pieno (ma non strapieno: ma si sa, Bologna è la città dove lo champagne sa sempre di tappo e i milordini di gazzoniana memoria sono lì apposta a ricordarlo facendo passerella a partita già iniziata e fino a metà secondo quarto!!!) le luci si abbassano, la musica sale e partono le immagini.









Di Alberto Bucci, ovvio, l’albertone della nostra parrocchia orfana oramai della sua classe, della sua simpatia, delle sue umanità e sapienza. Da quelle in un B/N sfocato e sgranato degli anni del debutto, capelli ricci e neri, gli occhiali sempre quelli e le giacche che nel grigio appiattente già si indovinano sgargianti fino a quelle sempre più chiare più nitide e colorate; da quelle con l’imberbe Messina prima assistente e poi predecessore a quelle con l’antico sodale Cazzola a costruire quella che sarebbe stata, sarebbe potuta essere, la prima squadra europea protagonista di là, in quella NBA dove i giochi sono duri e i duri, e tanti all'epoca ce ne’erano con la V nera stampata sul petto, avrebbero potuto giocarsela. Fino alle ultime, quelle dell’addio annunciato, il viso tirato ma lo sguardo sempre quello, ironico e vivo e le frasi sempre pronte: “… quando finirà la partita, se avrò perso avrò vinto lo stesso; per ché sono vivo …”. Grazie, grande coach, grande presidente, grande uomo.





Poi, quando i cinque o seimila del palazzo, tutti in piedi e tutti plaudenti, si sono riaccomodati, è stato il momento del futuro. Il grande cubo mutuato da quelli dell’NBA con vista a 360° (che bello sarebbe se funzionasse correttamente o se si sapesse farlo funzionare correttamente; nella serata problemi col punteggio, coi falli e con l’impostazione generale che, a tratti, azzerava il conteggio dei falli per riproporli subito dopo corretti o cancellava il punteggio sostituendolo con una sfilza di 123 456 che tanto ricordava il pronto prova delle trasmissioni radiofoniche d’antan), il nuovo coach e il nuovo capobranco, o quello che dovrà o dovrebbe esserlo, quel Mario Chalmers che di là ha giocato, e da califfo, smazzando assist e distribuendo normalità per LeBron, Wade e Bosch, se non il Gotha della palla a spicchi, qualcosa che ci va molto vicino.









Parlando del futuro, dunque, del cubo abbiamo detto. Di coach Djordjevic è presto anche se un paio di accorgimenti tecnico/tattici già si intravedono; tra i lunghi, settore nel quale si rivede un vivissimo Baldi Rossi che forse aveva qualche sassolino da togliersi ma soprattutto un Kravic (già panchinaro di lusso nella Serbia guarda caso allenata da lui stesso e dal quale evidentemente sa cosa potersi aspettare) che pare aver sbaragliato la concorrenza di un ancora fuori forma Qvale e di un desaparecido Moreira e poi nel gioco, un gioco più veloce, fatto di tagli ed assist, poco controllato e molto istintivo, un gioco alla serba appunto. Il giocatore, adesso, e cioè Chalmers, il crack annunciato che mostra ruggini spesse ma anche, e questo è una gran bella promessa per chi tiene bianco/nero, classe cristallina (si presenta con due punti, un assist e una tripla e poi rimbalzi, ancora assist, perfino uno da urlo con tunnel al malcapitato francese e schiaccione del solito Kravic, leadership e anche, è normale, tanti errori di supponenza ma anche di prova ed è confortante la voglia di tentare e la faccia tosta di continuare a farlo tipica di chi sa che tanto manca poco a che le prove diventino conferme).









La sensazione vera, ma è passata una sola partita, è che la squadra, adesso, si senta protetta o forse solo guidata da una mano di cui si fida o banalmente che sente forte e coperta (anche dalla società, chiaro). Spiace dirlo perché personalmente fui tra quelli contenti, e molto, della scelta estiva di coach Sacripanti ritenendolo, visti i trascorsi, uno dei migliori allenatori italiani, ma alla prova del campo, invece, ha mostrato di patire l’approccio alla realtà bolognese, una realtà prodiga di risorse ma anche di richieste ed aspettative; un po’ ciò che condizionò coach Ramagli l’anno passato e che conferma quanto da sempre affermato da allenatori vincenti come Messina e Scariolo e cioè che per allenare una squadra di big serve un big, di fatto, risultati, emolumenti e personalità.









In ultimo, una considerazione sulla partita, una partita mai nata (e visto il potenziale della squadra francese che pur ha vinto il campionato transalpino lo scorso anno, in netto debito di classe, fisico, grinta, aver pareggiato a LeMans rischiando anche di perderla, lascia adito a molte dietrologie) e conseguentemente sull’Europa dei canestri. Se questa è la coppa più importante organizzata dalla Fiba, l’Italia, questa italietta del basket così in crisi, è davvero in ottima (o pessima) compagnia in Europa.


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