Binario 69


Allora esistono ancora.





Quelle che una volta, alla metà degli anni ’70 (ma anche prima, solo che allora ero troppo giovane per conoscerle e frequentarle) pullulavano in tutta Bologna, individuabili dalla musica che sembrava uscire dal nulla, dal sottosuolo stesso della città, e dalle luci che filtravano, soffuse, oltre le pesanti tende nere che, quasi sudari d’ingresso ad un  mondo altrimenti celato, occludevano le porte d’accesso e le grate d’aereazione delle cantine, degli scantinati, dei sotterranei.





Parlo delle cave, alla francese, quelle che, in un delizioso, breve racconto (lo si trova nella raccolta “Racconti parigini” a cura di Corrado Augias, Super Coralli Einaudi, 2018) Boris Vian, intento a costruire la leggenda degli esistenzialisti, racconta illustrando il quartiere, l’isola la chiama, di Saint-Germain-De-Prés prendendo in rassegna le varie tribù urbane che lo abitano o lo frequentano. In questa sua recherche antropologica, o quantomeno geografica, l’enclave che più lo affascina e gli pare identificare il quartiere di allora, è quella di coloro che chiama cavernicoli, sorta di strani personaggi disabituati alla luce del sole ed ai normali rapporti interumani che abitano le caverne, le cave, appunto, luoghi perennemente circonfusi da una nuvola di fumo pesante e stantio di tabacco nero, galoises e gitanes prevalentemente, dove si svolgeva una vita notturna accompagnata da musica, una musica sincopata e ritmata, una musica che da allora è conosciuta come jazz.









Allora,alla metà dei fantasmagorici seventies, le cave costellavano la notte di Bologna; da quelle più famose (tra tutte la più celebre, e glamorousa, frequentata com’era da donne bellissime e inarrivabili, era quella di Nardo Giardina di via Cesare Battisti dove la sua Doctor Dixie Jazz Band ospitava in jam session improvvisate artisti di fama (e non raramente un giovanissimo Lucio Dalla) a quelle fighette (ce n’era una in via De’Pepoli che poi chiuse ed adesso a aria aperto), da quelle spontanee (ce n’era una bellissima e popolare in Brocca indosso) a quelle periferiche (una affascinante e assai in anticipo sui tempi sotto il pontelungo in via Emilia Ponente) a quelle che … Ce n’erano davvero millanta e più.









Intendiamoci. Le cave, locali dove poter suonare, o ascoltare ovvio, jazz o musica dal vivo, specie in una città come Bologna che è per l’Unesco “Città creativa della musica”, hanno continuato a vivere e lottare (contro il degrado del gusto) anche dopo: alcune celebri e riconosciute (tra tutte il Chez Baker,stupidamente costretto a diventare Chez Baker,della famiglia Baroni in via Polese o la Cantina Bentivoglio nell’omonimo palazzo storico di via Mascarella, alcuni diventati col tempo indirizzi imprescindibili (e in questo caso non si può dimenticare il Bravo Café sempre in Mascarella).





Ultimamente però, l’offerta si era come standardizzata ed impigrita, quasi qualsiasi falso pub o parvenza di bistrot dovesse offrire, per affermare la propria altrimenti ingiustificabile essenza, un accompagnamento musicale il più delle volte inutile e fastidioso nella sua povertà di espressione.





Trovare quindi, grazie alla preziosa dritta di amiche sempre informate (vero Francesca, vero Sophie?), enclavi di resistenza intelligente, luoghi ove suonare e ascoltare e vivere la musica, regala ancora il sapore di verità che si respirava nelle vecchie cave parigine dell’ultimo trentennio del secolo scorso, luoghi magici per certi versi, antri oscuri, musicali, luoghi che mantengono intatte le prerogative capaci di far rivivere le sensazioni di un tempo, è una festa, per la mente, le orecchie, il cuore.









Parlo del “Binario 69”in via Carracci 69, per l’appunto. Luogo di contaminazioni (con l’arredo che varia dall’avvolgenza bohemienne da salotto buono di zia Felicita allo strutturalismo quasi bauhaus del piccolo palco sul quale si alternano le band), un po’ pub (buoni i cocktails), un po’ bistrot (qualcosa da accompagnare alla scelta di birre lo si trova di sicuro), molto jazz e music club (specie dal giovedì al sabato), in una parola, espressione moderna di una cave d’antan (manca giusto la caratteristica nuvola di fumo da tabacco esistenzialista).





E locale, anche e soprattutto, giovane, molto giovane aperto (l’accesso è riservato ai soci con tessera che può essere sottoscritta al momento) dal martedì alla domenica dalle 19 in poi, un poi che può diventare piacevolmente davvero molto, molto tardi.


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