“Il sorriso di Jackrabbit”, undicesima puntata della saga


L’uscita di un nuovo libro di Joe R.Lansdale rappresenta, com'è giusto che sia, un piccolo avvenimento per il popolo sempre più esiguo dei lettori più intelligenti (okay, okay, nessuno si offenda; vero è che se si legge si è sempre intelligenti, però è altrettanto vero che c’è lettura e lettura).





Se poi si tratta dell’ennesima avventura del premiato duo Hap&Leonard, la compulsione a leggerlo per vedere come va a finire diventa a dir poco spasmodica. E certo non fa eccezione a questa regola non scritta “Il sorriso di Jackrabbit”, undicesima puntata della saga. Una storia di ordinario razzismo (“… nel giorno delle nozze con Brett, mentre arrostisce hot dog per gli ospiti, Hap si vede piombare nel giardino di casa due pentecostali da manuale. Il ragazzo, tatuato, indossa un paio di jeans neri e una maglietta con lo slogan «Bianco è giusto». La donna porta i capelli raccolti in una crocchia così alta da poterci nascondere dentro un frullatore. Sono la madre e il fratello della giovane Jackie Mulhaney, detta Jackrabbit, che da cinque anni se ne è andata da casa e da mesi sembra scomparsa nel nulla. Nessuno, tantomeno la polizia, vuole cercarla. Gli unici a raccogliere la sfida sono Hap e Leonard, senza immaginare che l'indagine arriverà a condurli nelle stanze segrete di una setta capace di adorare fantomatici uomini lucertola. E di infrangere senza rimorsi il quinto comandamento …”) in cui il segno più evidente, rispetto ai tempi, al ritmo e al succedersi incalzante di avvenimenti cui eravamo abituati, sono la lentezza e la verbosità che sembrano non dover mai farlo decollare davvero; per dire, a pagina 160, sulle 250 totali, non abbiamo ancora visto il duo entrare in azione in una delle loro epocali scazzottate (sì, c’è stato un piccolo intervento di Leonard, ma durato in tutto poche righe: nemmeno un antipasto, piuttosto un’entrée e di quelle poco sugose). Si parla, dunque, tanto e ancor più del solito in questa specie di “True Detective” prima stagione che mantiene comunque inalterata la sua cifra umoristica da B-movie e che risulta comunque molto più realistico di quanto si possa pensare nel suo divenire forse il romanzo più politico dell’autore texano, quello in cui, come rilasciato a “Repubblica” dallo stesso Lansdale è l’ombra lunga di Trump e del trumpismo trionfante a imprimere forte la propria orma sulla storia: «… ho pensato a quello che accade qui oggi con chi dà retta alle sue idee conservatrici: i manifestanti razzisti di Charlottesville. Ma del resto l'antirazzismo nelle mie storie è una costante».





Attenzione, però. Il razzismo, l’indifferenza nei confronti di chi soffre e ha bisogno, l’odio per il diverso da sé e dai propri compagnucci di merende, il disprezzo per gli ultimi della terra, è un sentimento che travalica, ormai, confini e frontiere, siano pure di carta e di avventura. E qui, in questo romanzo che ad alcuni, sentendosene forse traditi, non è piaciuto proprio per questo distaccarsi in qualche maniera dal solito disincantato cliché, ne abbiamo la lampante e disarmata dimostrazione. Come non trovarci infatti qualcosa, ben più di qualcosa in realtà, della nostra vita, del nostro quotidiano e come non identificare qualcuno nelle descrizioni che Hap fa del malvagio “… aveva quell’aria da bifolco che disprezzavo da sempre, lo sguardo di chi considerava l’ignoranza l’unica forma di verità e il disinteresse nei confronti dell’istruzione una specie di medaglia …” e ancora “… sinceramente non so fino a che punto creda davvero nelle stronzate che dice, ma se ne parli e le diffondi, anche con l’unico scopo di ottenere potere e soldi, per quanto mi riguarda è come se ci credessi. In altre parole, vuole cacciare tutti i neri per rendere felice una parte della gente che vive qui anche se ultimamente parla soprattutto di immigrati (che) sono i nuovi negri …” ?


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