Pendulum, uguale ma sempre diverso


Si torna direttamente all’essenza stessa e più vera del MAST (la Manifattura di Arti Sperimentazione e Tecnologia) con questa mostra “PENDULUM – Merci e Persone in Movimento – Immagini dalla collezione di Fondazione Mast”(al Mast, appunto, di via Speranza 42 fino al 13 gennaio 2019 e con orari che vanno dal Martedì alla Domenica dalle 10,00 alle 19,00 con ingresso, come meritoriamente sempre, libero) che celebra i cinque anni d’apertura del Centro Culturale Multifunzionale (cinque anni nel corso dei quali sono state offerte alla città diciassette mostre fotografiche inerenti l’argomento Industria & Fotografia tra cui tre “Biennali di Fotografia dell’Industria e del Lavoro”, la prossima presumibilmente prevista per ottobre 2019, l’assegnazione di borse di studio per giovani fotografi, nonché la creazione di una collezione che spazia dagli anni cinquanta dell’800 ai giorni nostri), una mostra di oltre 250 fotografie storiche e contemporanee di 65 artisti di tutto il mondo in cui le foto di maestri indiscussi (Robert Doisneau e le immagini dedicate agli stabilimenti Renault, Gabriele Basilico e i suoi porti, Mario DeBiasi e la frenesia del traffico milanese, Ugo Mulas e le auto da corsa, Dorothea Lange e le immagini del lavoro perduto testimoniato per la FSA, Mimmo Jodice e la malinconia dei nostri meridionali immigrati al nord o la solitudine delle immagini di Tina Modotti) sono contrapposte a quelle di giovani talenti come Sonja Brass con i suoi container o Richard Mosse con la sua opera “Skaramaghas”lunga sette metri che riprende centinaia di container (quelli scuri e opprimenti, sulla sinistra, pronti a partire, quelli chiari e luminosi, sulla destra che servono da casa ai migranti che lavorano sulle banchine: bianco e nero, come ben si addice ad un’icona dei nostri tempi, ché la termocamera utilizzata è in grado di registrare differenze di calore fino ad una distanza di 30 chilometri, rendendo in bianco il calore dei corpi ed in nero la freddezza dei metalli) oppure come Ulrich Gebert e Xavier Ribas con le loro installazioni su nomadismo e migrazioni o ancora come Annica Karlsson Rixon e la ripetitività assordante dei suoi truckersimmancabilmente bianchi (questi ultimi due, Ribas e Karlsson Rixon, in prima fila alla presentazione alla stampa).









“Pendulum”, allora, il titolo di questa mostra, una mostra importante che ha nel pendolo, nel suo movimento sempre uguale, ma sempre diverso (per usare le parole di Urs Stahel, curatore della photogallery e della collezione Mast, “… il pendolo simboleggia il passare del tempo. Il suo oscillare è anche sinonimo di cambiamenti improvvisi d'opinione, di convinzioni che si ribaltano nel loro esatto contrario. Ma il pendolo è anche un simbolo valido per i traffici in genere, per quel perenne scambio di merci, a fronte di altre merci, di denaro, di promesse …”) la propria suggestione iniziale. Una mostra sul lavoro, su come è cambiato nei secoli (si parte dalla rivoluzione industriale immortalata in immagine da Munkacsi per arrivare alle asettiche atmosfere industriali da film di fantascienza di Floto + Warner) allora, ma una mostra che vuole proporsi anche come riflessione, sofferta e profonda, sul tema della velocità che caratterizza l’attuale società globale, gli improvvisi cambiamenti d’opinione e di convinzioni che caratterizzano questi convulsi decenni di globalizzazione. Ma anche, il pendolo, inteso come metafora del lavoro pendolare, del movimento delle centinaia di migliaia, milioni, di lavoratori che ogni mattina partono per un lavoro il più delle volte affaticante e insoddisfacente per compiere, a sera, il percorso inverso per tornare nei loro quartieri dormitorio. Una mostra anche “politica”, quindi, o almeno di denuncia sociale sui guasti, o almeno le incongruenze e le disparità derivanti da un sistema di produzione economica sempre più autoreferenziale e chiuso in se stesso.









Come interpretare altrimenti l’installazione del già ricordato Xavier Ribas “Nomadi”che ricopre una intera parete con immagini che riprendono solo calcinacci e rovine in quello che sembra essere nulla più di un ingiustificabile caos e che invece è un insediamento industriale di Barcellona abbandonato causa la deindustrializzazione ed occupato, abusivamente, da nomadi. Nomadi cacciati da questo altrovedal sistema che non può sopportare né comprendere il movimento senza profitto (ancora il pendulumcome, per dirla ancora con Urs Stahel, “… ciclo ininterrotto, una gara cui partecipiamo tutti, gli uni realizzando profitti o subendo perdite, gli altri percorrendo tragitti lunghi e faticosi per recarsi al lavoro. In entrambi i casi, da decenni si continua ad aumentare il ritmo e la velocità: la crescente accelerazione dei processi economici e sociali è iniziata ai primordi della rivoluzione industriale fino a toccare oggi livelli vertiginosi. Il solo fenomeno che ci spinge a rallentare il passo, a cercare persino di fermare tutto, è quello delle migrazioni. Le uniche barriere esistenti sono quelle che frenano i perdenti locali e globali della modernità …”) e che per impedirne il ritorno, ha preferito disseminare il luogo di macerie: “… la città che preferisce autodistruggersi e desertificarsi piuttosto che ospitare la vita e gli uomini che potrebbero viverla …”per dirla con le parole dello stesso autore.


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