“Le braci” di Sándor Márai


Le date, gli anni, sono importanti quando non fondamentali. Se ci si riporta alle date, infatti, difficilmente si può sbagliare. Nel definire una scansione, una successione di avvenimenti, così come nel fornire un’interpretazione che, non si tenesse conto della cronologia degli avvenimenti che si vogliono narrare o elencare o semplicemente suggerire, si rischierebbe di confondere.





In quegli anni, quindi, era la seconda metà degli indimenticabili seventies ed era una delle molte vite passate, vissute e poi dimenticate, mi piccavo di conoscere bene, se non benissimo (convinzione, questa, che mi costò, anni dopo, un’avventuretta, tale sarebbe stata, per colpa dell’infausta affermazione di aver letto, si parlava appunto della Mitteleuropa, tutti gli autori e tutto ciò che avevano scritto. Lo riconosco: un’affermazione che potrebbe sembrare presuntuosa e che fece imbufalire la signora in questione convincendola che non ci si potesse fidare di chi millantasse al solo scopo di stupire, ma giustificata dalla brevità del periodo storico, dal numero oggettivamente basso degli autori che criticamente vi vengono fatti confluire, e dalla esiguità di ciò che allora si trovava tradotto) la letteratura tedesca (più che tedesca imperiale) della fine del secolo diciannovesimo. Merito sicuramente di Adelphi (allora prestigiosissima casa editrice di cui tutti indistintamente, almeno tutti quelli interessati ovvio, collezionavamo compulsivamente i preziosi libriccini dalle copertine in cartoncino bugnettato, monocolori, sobri, raffinati e molto, mooolto snob) che proprio in quel periodo iniziò a ri/stampare autori come Joseph Roth, Franz Wedekind, Arthur Schnitzler e Hermann Hesse dischiudendo, a noi affamati cercatori di chicche letterarie che si discostassero dal piattume editoriale di idee e qualità del momento (ricorda forse l’oggi?), il mondo degli scrittori mitteleuropei e contribuendo (con la riproposizione di romanzi come “La tela di ragno”, “Fuga senza fine”, “La cripta dei Cappuccini”, “La leggenda del santo bevitore” e “La marcia di Radetzky” di Roth o come “Risveglio di primavera”, “Lulù” e “Mine-Haha” di Wedekind o ancora “Il principe di Homburg” di Heinrich von Kleist , “Storie del bosco viennese” e “Gioventù senza Dio” di Ödön von Horváth, “I quaranta giorni del Mussa Dagh” di Franz Werfel, “Elettra”, “Andrea o i ricongiunti” e “L'uomo difficile” di Hugo von Hofmannsthal, “Amok” e “Bruciante segreto” di Stefan Zweig, “Sebastian im Traum” di Georg Trakl o infine “Girotondo”, “Fuga nelle tenebre”, “Il ritorno di Casanova”, “Gioco all'alba” e “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler) a dar vita a quella breve ma intensa stagione da vero e proprio parnaso letterario che durò una decina d’anni giusto a cavallo tra i due decenni.





Questa lunga premessa, vorrebbe inquadrare una nuova edizione di quello che viene ritenuto un piccolo classico di quella corrente letteraria. Sto parlando di “Le braci” di Sándor Márai, longevo scrittore magiaro dalla vita avventurosa e dall’opera letteraria tardivamente fortunata (i misteri dell’editoria commerciale) che viene, probabilmente per convenienza di botteghino, fatto rientrare “… a pieno titolo …” nel novero degli scrittori  mitteleuropei. Intendiamoci. Naturalmente nessuno vuole disconoscere l’importanza dell’autore, della sua opera, soprattutto della sua vita da apolide consapevole, da esiliato volontario, da liberista progressista in fuga da nazismo prima e stalinismo poi, vero figlio di una terra, la Slovacchia poi Ceco/Slovacchia ed ora nuovamente e solo Slovacchia, sfortunata e trasformata nel tempo a seconda delle convenienze e dei capricci di chi decideva confini e destini tracciando linee rette su una inespressiva cartina  geografica.









Ma è la definizione di scrittore mitteleuropeo che, al tempo medesimo, falsa la realtà e in qualche modo diminuisce, stringendolo nel genere, il valore universale dei suoi scritti.





Si parlava all’inizio di date. E son proprio le date che avvalorano questa disamina. Márai nasce sì in pieno periodo (è del ‘900) e luogo (a Košice in Slovacchia) e indubbi sono i suoi studi a Budapest (il terzo vertice del triangolo cultural/politico dell’allora impero gli altri essendo Vienna e Praga). Ed è pur vero che i suoi primi lavori, soprattutto teatrali, gli conferiscono da subito la patente di affermato librettista. Ma se invece ci si riferisce alla sua produzione romanzesca, la prospettiva deve cambiare. “Le braci”, conosciuto ed accettato come il suo capolavoro, è del ’40 (e in Italia viene pubblicato solo a fine anni ’90 in una revanche tardiva che tanto sa di operazione editorial/commerciale). Una data in cui tutti gli altri grandi esponenti della corrente sono  già morti (Roth nel ’39, Horváth un anno prima, Hoffmansthal nel ’29, Wedekind addirittura nel ’18 e Schnitzler nel ’31 mentre il solo Zweig morirà un paio d’anni dopo nel ’42; fa eccezione il solo Hesse che morirà quasi novantenne ad inizio anni ’60, ma lui è davvero ed in tutto un’altra storia). La stagione produttiva dei mitteleuropei, quindi è già scaduta da un pezzo quando Márai scrive questa storia di amicizia ed onore, amore e morte, famiglia e guerra, estrazione sociale e ambizioni personali. E la scrittura, inevitabilmente, ne risente. Perde della freschezza e della malinconia così tipiche, nonostante gli argomenti fossero simili ed anzi a volte persino più scabrosi, della scrittura di uno Schnitzler o di un Roth. Manca l’ironia acuta, non c’è traccia dell’orgoglio dell’appartenenza né della toccante allegria che nasce solo dalla consapevolezza della fine incipiente. Ci sono tristezza e cupezza. Non c’è il rimpianto, non c’è il ricordo se non quello che giustifica rancore e accidia. Si sente, e si vive con i suoi personaggi, il clima di oppressione che, indubbiamente (e che per questo mi faceva parlare di costrizione impropria della sua letteratura entro confini che non le appartengono) lo scrittore viveva in quegli anni ma non c’è vita nei due vecchi che si incontrano per il redde rationem che non ci sarà (e si intuisce che vita, ben poca, dovette esserci anche ai tempi della loro passata amicizia). Non c’è Weimar ma c’è la futura BerlinoEst. Non c’è Emcee/JoelGrey che canta “Money” nel cabaret di SallyBowles/LolaLola (Liza Minelli). E’ una parabola, la storia del nobile, ricco, noncurante, fedele alla classe Heinrich e del volubile, povero, sensibile, invidioso Konrad. Una parabola che, seppur illuminante per la storia dei suoi tempi, avvicina più la scrittura, e la statura di scrittore di Márai, ad esperienze successive (pur sempre improntate a quel periodo e in qualche modo imparentate agli scrittori mitteleuropei) come quelle di Alexander Lernet Holenia  (“Lo stendardo” e “Marte in Ariete”, “Il barone Bagge” e “La resurrezione di Maltravers”, “Ero Jack Mortimer” e “Due Sicilie”) o del nostro italianissimo e colpevolmente dimenticato Carolus Cergoly e del suo “Il complesso dell’imperatore”. Storie ed esperienze nobilissime, ma chem davvero, sono altro da quello.


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