Le dodici vite


La fine. Peccato la fine di questo “Le dodici vite di Samuel Hawley” di Hanna Tinti ed ottimamente tradotto da Sandro Ristori. Peccato la fine (e, volendo, la copertina, una copertina che si iscrive di diritto al novero delle più brutte degli ultimi anni), dicevo, una fine che, come spesso in chi esce da una qualche scuola di scrittura (ed in questo, scrittura creativa, Hannah Tinti, nata nel 1972 a Boston, autrice della raccolta di racconti “Animal Crackers” e del romanzo “Il buon ladro” edito da Einaudi, insegnante di scrittura creativa alla New York University e cofondatrice ed editor della rivista letteraria “One Story” è sicuramente un’esperta), è affrettata e affastellata. Ma solo per quel che riguarda il redde rationem con il cattivo di turno, perché per il resto, compreso il finale per certi aspetti aperto che ci fa augurare ci siano, a breve, altre dodici vite dello stesso Sam Hawley da narrare e da leggere, il romanzo è uno di quei romanzi tossici, di quelli che, se li prendi in mano non riesci a staccartene, e contini a leggere e leggere, perché non puoi fare a meno di sapere come andrà a finire ed allo stesso modo, però, rallenti la lettura perché sai, lo sai benissimo, che quando arriverai alla fine sarà un qualcosa di bello che sarà terminato, il viaggio in compagnia di un amico caro e fraterno che tra poco non ci sarà più. Perché, diciamolo, chi non vorrebbe avere un padre, fratello, marito, amante, amico come il duro, durissimo, amorevole, affezionato, sincero, disponibile, unico, Samuel Hawkins, un uomo che tanto ricorda per certi versi il Roy Cady di “Galveston” di Nic Pizzolatto, un uomo dal corpo segnato da dodici cicatrici, dodici colpi ricevuti, dodici proiettili che hanno lacerato il suo corpo e la sua vita frastagliata e slabbrata, ognuno testimone di un altro posto visitato, di un ennesimo errore commesso, di un estremo amore perso o intravisto. Oppure, anche, chi non vorrebbe essere Loo, la sfortunata ma fortunatissima figlia amatissima al contempo amica e confidente dello stesso Sam, uomo e ragazza in viaggio alla ricerca di se stessi, un uomo e una bambina ancora perdutamente innamorati della sua Lily, amica e amante indimenticabile e mamma mai conosciuta, e per la quale, in ogni motel, in ogni baracca, in ogni casa dove si fermano, lui e Loo, nel perenne peregrinare della loro esistenza randagia aspettando di poter finalmente tornare a casa, quella casa sulla spiaggia, il mare subito di là dalla stretta striscia di sabbia, una casa in cui poter tornare alla vita, una vita di gamberi e pesci, alberi della cuccagna e la pigra consuetudine con la tranquillità ma anche con le invidie e i piccoli grandi problemi della infinita provincia statunitense, dove Sam potrà fare il pescatore come gli altri abitanti della cittadina, andare al pub a bersi una birra e aspettare che il tempo rotoli via e Loo si troverà a convivere con le difficoltà di inserirsi in una nuova scuola, i primi incontri con i ragazzi e le palpitazioni del cuore (qui siamo nella livida Olympus, Massachusetts, il nordest dei padri fondatori così lontano dalle lucentezze rassicuranti da Signora in Giallo), approntano un tempio fatto delle poche, povere cose che di lei si sono potute salvare.





Un racconto lirico e violento, dunque, un racconto debitore di tanta letteratura americana, anche alta (il ritornare ciclicamente della balena che, come nel “MobyDick” di Melville è simbolo sì di libertà ma in questo romanzo è anche auspicio di un futuro che promette possibilità) , un racconto che sa coniugare le atmosfere del thriller ai temi del romanzo di formazione, l’affetto di un padre alla violenza e al sangue, un racconto che staglia, nitido ed indimenticabile, il ritratto di due personaggi impossibili, eppure così veri.


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