USA’68 - Disordini e sogni, cinquantaquattro immagini di reportage

Poteva M.me Isabella Seragnoli, da sempre munificamente partecipe di iniziative rivolte al sociale, lasciar passare in silenzio i cinquant’anni trascorsi dal ’68? Naturalmente no, e infatti ecco che sabato 9 giugno negli spazi del Mast di via Speranza (Mast.Gallery Livello 0, aperta al pubblico fino al 30 settembre) ha inaugurato “USA’68 -  Disordini e sogni, cinquantaquattro immagini di reportage”, una mostra bella (bello è un concetto relativo ed inadeguato se rivolto a questo conteso, lo so) e necessaria, oserei dire, che, senza tradire la vocazione espositiva incentrata sui temi del lavoro e dell’industria, vuole sì ricordare un anno simbolo, ma anche, e forse soprattutto, rendere omaggio al fotogiornalismo degli anni sessanta.

Un fotogiornalismo eroico, quello di quegli anni, eroico e pericoloso, eroico e pericoloso e fondante per gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità che, a distanza di due secoli e mezzo dalla loro prima formulazione, invasero la società americana riempiendola di sé, di speranze, di ideali ed illusioni.

Sono 54 le foto in mostra. Cinquantaquattro foto provenienti dalla “Monroe Gallery of Photography” di SantaFe che ripercorrono ed illustrano, accompagnandole, le vicende topiche, gli snodi del destino e le ripercussioni sulla storia, la storia di allora che anticipò la storia che sarebbe stata, alternando le immagini della parabola lucente ma breve di Martin Luther King a quelle tragiche della sporca guerra, quella guerra del Vietnam che così profondamente e dolorosamente segnò e contraddistinse la coscienza di un’America non più da happy days, quelle scattate durante le campagne elettorali di Nixon e Bob Kennedy a quelle crudeli del secondo assassinio Kennedy, quello dello stesso Bob, che segnarono la fine della Camelot democratica simbolo di un’innocenza agognata, forse sognata ma soppressa ancora in fasce dell’America tutta, i ritratti intensi dei campioni di allora (alcuni, se non tutti, campioni ancora oggi) Dylan e Alì e Jane Fonda e quella dei guanti neri da black panther che inguainavano mani nere lanciati in faccia all’establishment



mondiale da Tommie Smith e John Carlos nel momento sportivo più alto, la premiazione della sfida regina dell’Olimpiade. Scatti, questi esposti, che rappresentano, come spiega Urs Stahel, “… l’ultimo grande momento di gloria del fotogiornalismo. Senza le foto in B/N, incisive e fortemente contrastate, senza le prime sezioni a colori nelle riviste, non si potrebbero nemmeno immaginare i Beatles e i RollingStones, lo sbarco sulla luna e la guerra in Vietnam, Courrèges e Twiggy, la liberazione sessuale e il femminismo e le BlackPanthers …” (tranquilli, comunque; anche se ai più i nomi dei fotografi, Ken Regan e Art Shay, Eddie Adams e John Olson, Bill Eppridge e Steve Schapiro, John Dominis e Bo Gomel, Carlo Bavagnoli e gli altri, non diranno nulla, le immagini, tra le più iconiche del periodo e grondanti storia e sangue,  sudore e speranze, le avrete viste centinaia di volte, ma mai dal vivo, e sarà, come ogni volta che ci si trovi a confrontarsi con delle autentiche testimonianze della storia, un’emozione potente).

Oltre alle immagini, la mostra racconta il ’68 con una videoinstallazione immersiva a 360° in ciclorama (scorrono documentari e filmati storici che mostrano avvenimenti contrasti e suggestioni di un’epoca che visse per la prima volta il sogno di giovani che si affacciavano per la prima volta alla ribalta della storia per reclamare una cultura propria, alternativa ed opposta a quella degli adulti, una vera e propria ribellione contro il potere in tutte le sue forme)

Ed una videoproiezione con materiali recuperati dagli archivi della Cineteca del Comune di Bologna, in cui girano in loop filmati e servizi sulle proteste studentesche in Italia e a Bologna a sottolineare il passaggio di testimone del sogno americano e l’inizio del nostro ’68.

Infine una nota di colore. A presentare la serata ma più l’assunto stesso della iniziativa, c’era Federico Rampini, bravo, affabulatorio e assolutamente a suo agio nel padroneggiare lo spazio, nel gestire i tempi del racconto, nel raccontare divulgando ma senza entrare fino in fondo nel merito e nel contesto (come, d’altronde immagino questo gli fosse stato chiesto), un Rampini, però, che, quando si è presentato alla platea dicendo “… buonasera, innanzi tutto vorrei dire che io nel ’68 non c’ero …”, è sembrato davvero Rampini che imita Crozza che imita Rampini. Potenza (una potenza assai diversa da quella evocata da Stefano Bonaga nel suo intervento, intervento che improvvisamente ed in un attimo ha fatto lievitare il tutto in un altrove di filosofica sospensione ), per dirla come a quei tempi, del tubo catodico.

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