Ciao Anthony

A soli 62 anni Anthony Bourdain ci ha lasciati. Volontariamente. Questo non cambia, naturalmente non può cambiarla, l‘opinione che io e tanti altri che come me amano la letteratura avevamo di lui. Attenzione, però. Anthony Bourdain non era uno scrittore (o almeno, non era SOLO uno scrittore). Era, prendendo a prestito le parole di un amico, Gianluca Testoni, che spero non si offenderà per il fatto che le abbia integrate ed ampliate, per tentare di dare un’idea della complessità e dell’interesse del personaggio, un americano con radici fortissime in Europa. Era un cuoco, anzi uno Chef internazionale che ha creato e gestito alcuni dei ristoranti più importanti di Manhattan ma non per questo se la tirava al contrario di tanti nostrani nani da Circo Medrano. Grande viaggiatore, come un Chatwin contemporaneo e metropolitano, era anche scrittore di libri, di cucina, certo (ma non di libelli culinari ripieni di farcia, impiattare, erborinato, mappazza, prendiamo il nostro pisello …) ma anche e soprattutto di libri pieni di vita, vita vissuta ma anche, perché farsi mancare qualcosa d’altronde, gialli (“Gone Bamboo” e “Bone in the throat” pubblicato da Marsilio come “Un osso in gola” da cui è stato tratto il film omonimo diretto da Graham Henman ed interpretato da Ed Westwick, Tom Wilkinson, Andy Nyman e Vanessa Kirby) e grande divulgatore culturale grazie ai suoi programmi televisivi (“Anthony Bourdin – no reservation”, “Cucine segrete” o “The Layover” in cui faceva vedere cosa potesse fare, vedere, vivere un turista in sole 24 ore) o tutti quelli di viaggi ed incontri con filosofi, operai, immigrati che, oltre a se stessi ed alla propria cultura, spiegavano e realizzavano i piatti della loro terra d’origine. E per finire, il che non guasta,

Bourdain, nato a NewYork, diplomato al Culinary Insitute of America, collaboratore del NewYork Times, dell’Observer, dell’Indipendent, definito dallo Smithsonian, l’importante istituzione di istruzione e ricerca, come la rockstar del mondo culinario, oltre che originale, efficace ed affascinante, era un gran bell’uomo.

Quello che naturalmente interessa noi, al di là della sua reale pulsione sociale, come il fattivo sostegno alle popolazioni emarginate o il suo indefesso prodigarsi per migliorare le condizioni lavorative dei suoi colleghi meno fortunati (era promotore di una campagna per rendere più sicure le condizioni di lavoro per i dipendenti dei ristoranti) è il Bourdain scrittore. Leggere i suoi libri, quelli che sbrigativamente qualcuno potrebbe definire di cucina (mai un libro di cucina è stato più lontano da un libro di cucina come quelli da lui scritti) costituisce davvero un’esperienza formante in cui il food, ciò che circonda il suo mondo, ma anche ciò che lo rende unico e affascinante ed imprescindibile, diventa un pretesto, nulla più, per esplorare la condizione umana ed aiutarci ad intendere in modo diverso il cibo, i viaggi e, perché no, noi stessi.

“Kitchen confidential”, allora. Il libro che lo fece conoscere, e cosa meglio dell’introduzione, “Due parole da parte dello chef”, per capire di cosa si tratta e cosa ci aspetterà in questa discesa a rompicollo e nella repentina risalita nei meandri e nelle oscurità dei recessi più nascosti dei grandi ristoranti alla moda “… non fraintendetemi: io amo il mondo della ristorazione. Diavolo, sono chef da una vita, e nel giro di un’ora starò probabilmente rosolando le ossa per la demi-glace in un scalcagnata cucina a sud di ParkAvenue. Non sto per vuotare il sacco su tutto quello che ho visto, imparato e fatto nella mia lunga carriera di lavapiatti, sguattero, addetto alla friggitrice e poi al grill, salsiere, sous-chef e chef … se dovessi avere bisogno alle quattro del mattino di un favore, che si tratti di una spalla su cui piangere, di un sonnifero, di soldi per la cauzione o semplicemente di qualcuno che mi venga a recuperare in auto in un quartiere malfamato sotto una pioggia battente … chiamerei il mio sous-chef, o uno che lo è stato in passato, o il mio salsiere, qualcuno con cui lavoro o ho lavorato nel corso degli ultimi vent’anni … e voglio parlarvi degli oscuri recessi delle retrovie di un ristorante, una sottocultura la cui gerarchia militare e l’etica vecchie di secoli a base di rum, sodomia e frusta creano una miscela di ordine inossidabile e caos capace di mettere a dura prova i nervi di chiunque …”.

Ma se in “Kitchen confidential” lo chef ci apre le porte sui segreti delle cucine, è in “Il viaggio di un cuoco” che Bourdain, abbandonata la tolda di comando della BrasserieLesHalles di NY, si dedica al viaggio in chiave gastronomica, alla ricerca, novello Graal, del cibo eccelso e perfetto in un peregrinare che lo vede in Giappone e in Messico, in Cambogia e in Russia e sulla WestCoast.

Vivace, irriverente, curioso, avvincente, sarcastico, irresistibile, con il suo modo di scrivere, istintivo, appassionato e talvolta iperbolico, cerca sempre di essere rispettoso delle culture e delle differenze con cui si trova ad interagire. Del Giappone, ad esempio (i piatti e gli alimenti sono citati sempre con il nome locale e spesso accompagnati da una breve descrizione), Bourdain apprezza la dedizione, la perizia e la cura dei colleghi giapponesi e si interessa tanto alle tecniche quanto agli accostamenti dei cibi nonché ad aspetti marginali dell’alimentazione (dedica alcune pagine alla dieta seguita dai lottatori di sumo) perché infatti “… non esiste posto al mondo (almeno fra quelli in cui sono stato o di cui ho sentito parlare) che stimoli altrettanto profondamente i centri del piacere più intimi del cervello di un cuoco quanto il Giappone. Nessun’altra gastronomia, per dirla più chiaramente, è così lineare: gli elementi più semplici, puri e freschi del piacere della degustazione vengono isolati e raffinati fino all’estrema essenzialità …”, tecniche e filosofie che ritrova, e ci regala, quando (pag.164-165), descrive la sua esperienza con il fugu, il leggendario pesce palla “… se avessi avuto una lista di dieci cose da provare assolutamente durante la mia visita a Tokyo, il fugu sarebbe stata una delle prime voci dell’elenco … il fugu, è una prelibatezza. E molto costoso. Bisogna aver passato un esame di stato, al termine di un corso lungo e approfondito, per poterlo cucinare e servire. Può uccidere e ogni anno, in Giappone, uccide almeno una ventina di persone … scelsi il ristorante Nibiki, diretto dal suo proprietario e chef, Kichiro Yoshida … il Nibiki è stato condotto dalla famiglia Yoshida per ottant’anni senza incidenti o fatalità … basta un solo errore e si è fuori dal giro dei ristoranti di fugu … il Nibiki è un ristorante dall’aspetto casalingo, una grande cucina aperta con un bancone e una zona per mangiare sopraelevata, con tavoli e cuscini … su un tagliere bianco perfettamente pulito, c’era un grosso esemplare del favoloso pesce …”.

Libri di cucina, ma non solo, che ci aspettano, freschi, ancora freschissimi nella loro f ragranza, per ingolosirci con un gusto nuovo da umami della letteratura.

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