David Foster Wallace

Parecchi anni fa la mia promettente carriera di giornalista finì a causa di un aggettivo. Un aggettivo negato, o meglio cambiato. A nulla valsero rimostranze, richieste di spiegazioni, pretese di ripristino. Così, presi cappello e me ne andai. Intendiamoci: nulla di eroico. All’epoca lavoravo già altrove e mi occupavo di teatro, quello che allora si chiamava “teatro di ricerca” o “nuovo teatro” scrivendone per passione, perché ero bravo e perché sapevo farlo. In realtà, però, forse ero anche un po’ stanco delle 60 o 70 serate, in stagione, passate a vedere spettacoli alcuni dei quali, ammettiamolo, velleitari ed inutili (ma è facile dirlo adesso; allora ci si sentiva parte di un mondo e di una cerchia di iniziati davvero speciali). O forse banalmente, non avevo le palle anche solo per poter pensare che quello che mi piaceva tanto sarebbe potuto diventare la mia vita e il modo di potermela permettere. Fatto sta che quell’aggettivo divenne lo spartiacque tra ciò che avrei voluto fare e quello che, invece, feci davvero (e una bella soddisfazione fu, mooolti anni dopo incontrare il mio direttore d’allora che, ricordandosi ancora di me e di quanto scrivessi bene, confessò di non aver fatto nulla per trattenermi perché ero inadatto, troppo avanti, per quel quotidiano). Un aggettivo, dunque. Algido, avevo scritto. Gelido, avevano corretto. Algido e gelido, ricordatelo, ci torneremo.

Una parola, quindi. Una parola cambiata. Ciò che è, ciò che potrebbe essere ma non sempre è. Cosa c’entri con la letteratura americana in generale e con David Foster Wallace in particolare, ci arriveremo. Innanzi tutto, allora, quando si parla di letteratura americana, e statunitense in particolare, o sei uno scrittore ebreo in possesso della verità assoluta (anche se passi la gran parte del tuo tempo a mascherarla da auto indulgenti e compiaciute, anche se false, riservatezza, umiltà e desiderio di non apparire) e sei in cerca della unanime consacrazione a scrittore del GRA (il Grande Romanzo Americano) oppure scrivi storie.

Purtroppo, in Italia in particolare ed in Europa in generale (con la forse sola eccezione della Francia), in mancanza di grandi scrittori, o anche solo scrittori, di storie, una certa critica (e qui si potrebbe aprire un lungo discorso sulla critica, su una certa critica almeno: una pletora di varia umanità formata per lo più da scrittori e registi, teatranti e musicisti, fotografi e, ultima moda, cuochi mancati; gente che avendo scoperto di non saper scrivere, filmare, dirigere, suonare, cantare, fotografare, cucinare, e patendo di ciò, si è inventata una credibilità parlando ed elucubrando per spiegare ciò che, secondo questa visione, va rivelato ad un pubblico beota incapace di intelligere) ha indotto la produzione letteraria (d’ora in avanti solo di libri parleremo il concetto essendo stato esposto) a virare verso una forma di scrittura “autorale” disinteressandosi alle storie per rinchiudersi piuttosto in un privato, nella rappresentazione di un privato, che il più delle volte sfocia nel solipsismo e nell’inutilità. Chiuso in una autoreferenziale torre d’avorio, cattedrale del radicalismo chic ed intellettualoide fine a se stesso, chiunque può infatti vedere, interpretare e giustificare, qualunque cosa sentimento affermazione sensibilità intento e chi più ne ha … la propria sensibilità o semplice conoscenza lo porti a intuire in un ‘opera in cui nulla viene raccontato e tutto viene lasciato in sospeso affogato in un mare di metafore senza certezze.

Ma David Foster Wallace ho citato. La sua traduttrice storica, Martina Testa, ricordando la genesi che ha accompagnato la ripubblicazione (nuova veste cartonata ampliata con l’aggiunta di alcuni racconti non presenti nella precedente edizione) della raccolta “La ragazza dai capelli strani”, ricorda come, tralasciando volutamente il Wallace individuo … i suoi tic, il suo look, i suoi modi, il suo essere umanissimo, amabile perfino buffo azzerando la soggezione intellettuale che chiunque legga le sue pagine più belle non può fare a meno di provare … ogni volta che traduceva un suo libro o anche solo un suo racconto, gli sottoponesse decine di dubbi e domande e ogni volta lui rispondesse esprimendo disagio, difficoltà, fastidio perché quel racconto non poteva essere tradotto in maniera fedele e dignitosa, quella espressione era talmente ricca di sottotesti ed allusioni e valori sonori che trasposta in altra lingua avrebbe perso di senso. Non si trattava , naturalmente, di una professione di superbia tipica di chi, talmente sicuro e geloso della perfezione della propria prosa non può tollerare che altre persone vi mettano mano snaturandola e danneggiandola. Perché Wallace, in realtà, rispondeva impiegando pagine e pagine per delucidare il significato anche di una singola parola, pronome o articolo. Era il suo modo per cercare di evitare di essere frainteso, di non essere capito, di far sì che la sua prosa  maniacalmente precisa, completa, lucida riuscisse a stabilire un contatto autentico e solidale con le persone a cui parlava. Una prosa difficile che non era un atto di isolazionismo, ma al contrario  lo sforzo di comunicare in maniera profonda e onesta con il lettore. Ecco, quindi. Uno scrittore, un autore (se ci fosse qualche dubbio, in Wallace si ritrovano echi della grande letteratura alta statunitense: partendo dal MarkTwain di “Hucleberry Finn” paradigma dell’innocenza perduta per arrivare ai padri cantori del sud picaresco e vitale, i Faulkner, gli Steinbeck, i Caldwell per poi risalire fino al Carver algido, algido non gelido, degli esordi, e se dovessi definire la scrittura di Wallace mi verrebbe da citare il titolo di una raccolta di racconti, “Gelide scene d’inverno”, di Ann Beattie, la più dotata, forse, tra tutte le vestali del minimalismo carveriano, per arrivare al Lansdale della saga del “DriveIn” ed infine agli epigoni, coloro che hanno letto e amato e fatto proprio lo stesso Wallace, uno su tutti il Faber di “Sotto la pelle”) un artigiano della parola maniacalmente dedito alla propria scrittura, all’essenza più profonda e vera della propria scrittura, che, come con un cesellatore rinascimentale, sceglie,  insiste, spinge, difende, modella ogni parola, ogni concetto, ogni storia ed ogni minima sfumatura della propria prosa impendendo in tal modo, con la chiarezza, l’inappuntabilità, l’incontestabilità di tutto ciò che scrive, che i suoi racconti possano essere coscritti nelle pastoie delle metafore, del non detto, non spiegato, del volutamente (e furbescamente) sotteso lasciando al lettore, avvertito o no, il piacere assoluto della lettura fine a se stessa.

Ne “In volo” del “Banco del mutuo soccorso”, il gruppo principe dell’ormai tramontato progressive italiano, a un certo punto il testo dice “… da qui messere si domina la valle, ciò che si vede è …”. Ciò che si vede è. Ma anche ciò che si scrive, è. Non altro. Null’altro c’è, ci può essere dietro ciò che si scrive se non ciò che si è scritto quando si è David Foster Wallace.

Algido e gelido. L’una cosa non è uguale all’altra, ma ognuna è se stessa, è ragione e spiegazione di se medesima. Algido e gelido, ricordate?

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