In viaggio tra i romanzi di Francesco D’Adamo:

C’è un momento in “Leopardi” (Hugo Pratt, Lizard editore) in cui David Brukoy, alias BigTamTam) dice a Corto Maltese: “… noi uomini leopardo siamo la giustizia africana. I nostri popoli, le nostre tribù, anche se sono nemici tra loro, riconoscono l’autorità degli uomini-leopardo. Noi ci occupiamo dei crimini commessi fra gli africani contro di loro … se c’è stato un delitto fra gli amazulu nell’Africa del sud e il responsabile fugge in Kenia, saranno gli uomini-leopardo del Kenia a fare giustizia … noi siamo ovunque … in Congo ci chiamano uomini-simba o uomini-leone, sulle sponde dei grandi fiumi siamo gli uomini-coccodrillo … gli amministratori coloniali sono bianchi e i bianchi non hanno mai capito nulla dell’Africa … hanno portato le loro leggi, ma non sanno che esiste la legge africana, la nostra legge, la vera … in Europa o in America, ovunque ci siano degli africani noi siamo presenti ma in mezzo ai bianchi è una faccenda politica, noi difendiamo il nostro popolo …”.

Pensavo a questo, alle parole di Pratt, uno che l’Africa l’ha conosciuta, vissuta, amata quando … ci arriverò. Prima, però, … molto tempo prima che Lucarelli diventasse quel fenomeno mediatico che è ora (stava giusto giusto pubblicando la 1^ avventura del commissario De Luca, una delle figure più belle e compiute della giovane narrativa italiana). Molto tempo prima che Rigosi anche solo pensasse di poter scrivere, tra una corsa in bus a l’altra, le sue storie metropolitane e prima che Fois partisse per il suo personalissimo viaggio alla ricerca di una difficile interazione con la tradizione orale sarda. Molto tempo prima che tanti figli di papà editassero con il proprio nome romanzi scritti da genitori importanti. Molto tempo prima, che quello che, a volte, impropriamente viene definito come noir diventasse fenomeno talmente diffuso che chiunque provi a scrivere, ormai, scrive noir. Prima che il genere divenisse di dominio pubblico e, inevitabilmente, sputtanato da serie TV che paiono piuttosto stanche riproposizioni di telenovelas da repubblica delle banane. Prima, molto prima, di successi editoriali da decine di migliaia di copie tutti uguali, prevedibili e ridicoli. Prima di Vichi e Manzini, prima di Carboni e Marzocchi, di Carlotto e Carofiglio, di Varesi e D’Andrea, prima, molto prima anche di Costantini (ma lui è diverso, è bravo, e merita). Molto tempo prima, dunque.

Era il 1990 ed usciva per Mondadori un folgorante noir italiano, duro, spietato, cinematografico (guardandolo, pardon, leggendolo, si ha l’impressione di essere dalle parti del prologo di “Nikita” di Luc Besson).

L’autore si chiamava (si chiama) Francesco D’Adamo ed il titolo del romanzo, vero e misconosciuto capostipite di tutto un movimento in seguito tanto fortunato, era “OVERDOSE” (non cercatelo, è fuori catalogo, ma se davvero volete ne esiste una copia abilitata al prestito presso la Mediateca di San Lazzaro).

Poi, dopo questo esordio dirompente, l’ho perso nel nulla del nulla pubblicato arrivando, perfino, a supporre che, in puro stile eroe maudit ottocentesco, fosse stato travolto dalle esperienze che descriveva in maniera così sentita.

Ed invece. Dopo tutti questi tanti anni, l’ho ritrovato. Come si ritrova un vecchio amico, una mattina assolata tra un acquazzone e l’altro di quel pazzo inverno che non si decideva a far posto alla primavera.

Solo che ora scrive romanzi per bambini (adolescenti, ragazzi???). E vince premi su premi, anche in giro per il mondo. E non ha niente da invidiare ad autori più fortunati, ad esempio Pennac al quale “Bazar”, una deliziosa pantomima ambientata in un quartiere assai multietnico dove il collante tra le tante realtà è una sorta di felice e demenziale joie de vivre, può tranquillamente apparentarsi (e che l’autore abbia dato una lettura e forse amato “La vita davanti a sé” di Romain Gary/Émile Ajar si può tranquillamente  ipotizzare). E che non ha dimenticato, anzi, l’ha ampliata, una specie di ribellione alle ingiustizie sociali quando, come in “STORIA DI IQBAL” (storia vera di Iqbal, ammazzato a 13 anni dalla mafia dei tappeti pakistani perché assurto a icona della lotta mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile) mette l’accento sul valore della libertà e della memoria che a tutti i costi va salvata perché senza memoria non c’è speranza di futuro o come in “STORIA DI OUIAH CHE ERA UN LEOPARDO” (da qui, la pratica di drogare i giovani schiavi per far loro credere di essere leopardi o altri nobili animali prima di sacrificarli nel calderone di sanguinosissime guerre tribali, il richiamo all’incipit) un romanzo commosso ed indignato in cui si avvicina, per raccontarla, alla immonda pratica del rapimento di bambini per farne tagliagole alla corte dei vari signorotti della morte nell’Africa nera obliata e sfruttata che vive in stato di guerra permanente trovando il modo e la indignazione per raccontare i grandi guasti che i rimasugli di un colonialismo selvaggio continuano a perpetrare nell’abbandono e nell’indifferenza di un occidente cinico e baro nelle culture e nelle vite di tanti ultimi del mondo.

Un autore variegato e forsennato nato urlando del disagio giovane e irrazionale di chi tutto ha, avrebbe, ma non riesce a farselo bastare e che si è trasformato in un autore vero, antico e commosso che urla ancora, ma sommessamente, del disagio giovane di chi nulla ha e quel nulla (la vita stessa, ça va) vogliono fartelo pesare, vogliono rubartelo, vogliono annullartelo.

Così, per quel che conta, per quel che posso, Francesco, non posso che, prendendo ancora a prestito le parole di Pratt, urlarti forte “… buona caccia, fratello …”.

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