“Io che conosco il tuo cuore” e “Pietro Ingrao, mio fratello”

De Gregori se la ricorda bene Giovanna, anche se è un ricordo che vale dieci lire. Ed anch’io, nel mio piccolo, ho un Giovanni (Giovanni, vabbè, non Giovanna) che ricordo bene e il suo ricordo non vale certo solo dieci lire. Nemmeno cento, o mille, se è per questo, perché io me lo ricordo quando bambini giocavamo tra cavedagne e ruscelletti, correndo in mezzo alla ”piantata” (e chi non sa cosa fosse, soprattutto in questi tempi di tutti sommelier e tutti chef, se la vada a studiare questa cosa che i contadini delle nostre parti facevano e cioè maritavano le viti agli alberi impiantandole praticamente attaccandole agli olmi) mentre portavamo il latte al casello e tutt’attorno era un mare l’erba. Scherzo, naturalmente, ed è un peccato. Non conservo ricordi simili con Giovanni, che ho conosciuto in anni più adulti rispetto a quelli che avremmo dovuto avere se la descrizione (copiata; eggià, non solo il ricordo, nemmeno le parole sono mie) fosse vera. Le parole, dicevo. Che forse proprio proprio copiate non sono, ma quanto meno prese a prestito, quello sì. E prese proprio da lui, Giovanni Zucca, il mio amico di scrittura, l’antico pard con cui tanto scrissi e con tanto, immodesto e forse immeritato, successo (lui, poi, ha continuato, eccome se ha continuato; io, invece …). Ed allora, e visto che lui ha continuato, eccolo questo (come definirlo: bello? riduttivo, importante? certo) romanzo, ma più che romanzo, storia di vita, una vita vissuta, ed amata, fino allo stremo, fino alla morte, sorta di biopic se il termine biopic si potesse (ma sì, perché no, lo faccio) adattare alla letteratura. Eccolo, quindi, questo “Io che conosco il tuo cuore” la … storia di un padre partigiano raccontata da un figlio .. che Giovanni Zucca ha scritto con Adelmo Cervi (o che Adelmo Cervi, figlio di Aldo, il terzogenito dei 7 fratelli Cervi fucilati dai fascisti al poligono di tiro di Reggio Emilia il 28 dicembre del 1943, ha scritto con Giovanni Zucca). Una storia, quella di una famiglia di mezzadri che si ergono a fittavoli, un percorso non proprio comune ma insomma altri ce ne furono, che si intreccia alla Storia, quella con la S maiuscola, quella dei generaloni felloni e delle cooperative di contadini, dei carabinieri che sparano sui primi timidi scioperanti per fame e delle leghe degli operai, dei podestà in orbace e delle spigolatrici con le prime povere e gualcite copie de L’Unità nascoste sotto la blusa, delle camicie nere picchiatrici e vigliacche e delle biciclette che sfrecciano nella notte stellata della bassa reggiana. Una storia raccontata da un figlio, il figlio di un padre strappato alla vita, per rivendicare di essere figlio di un uomo e non di un mito pietrificato nel tempo e nelle ideologie. Una storia bellissima, poetica e tragica scritta con il cuore e la fortunata capacità di scrittura di Giovanni  Zucca, uno che sa scrivere, uno che ancora  persevera nel piacere perverso della letteratura e in quello altrettanto perverso, se non più, del ricordo e che nel ricordare scopre di sapersi ancora indignare donando a noi, lettori guardoni, lo stesso irrinunciabile sentimento. Ancora, una storia, straordinaria nella propria ineluttabilità, racchiusa tra due fotografie. Nella prima, degli anni trenta, una grande famiglia riunita, contadini della pianura, sette fratelli e due sorelle tutti con il vestito della festa insieme ai genitori. Nella seconda, due anni dopo la fucilazione dei sette fratelli, solo vedove e bambini, sperduti ed indifesi, con in faccia, marchiata a fuoco, l’espressione di chi è sopravvissuto ad una tempesta o ad un naufragio.

Ma soprattutto, una “… storia vera. Talmente vera che sembra un romanzo. Il romanzo d’amore di chi sa bene che l’amore si nutre di libertà …”.

Capita poi, dopo aver finito di leggere la storia sui Cervi, che mi capiti tra le mani “Pietro Ingrao, mio fratello”, altro biopic (che stia nascendo un genere? biografico romanzato si potrebbe chiamare; quasi quasi lo propongo, se non esiste già) anche questo dell’ormai esperto Giovanni Zucca in cui Giulia, l’amatissima sorella piccola di Ingrao tesse le trame di questo racconto legandole con il fil rouge che fin da bambini univa i due fratelli: ribellarsi, lottare, rischiare in prima persona per se stessi e per gli altri regalando agli stessi lettori curiosi e inconsapevoli di prima, un ritratto di famiglia che è “… un album di fotografie in bianco e nero che, a volte, possono tingersi di colori. Un romanzo a più volti e a più voci che racconta, oscillando tra memorie e tempo presente, la vita di un uomo lungo un secolo, Pietro Ingrao. La sua infanzia nell’antica casa di Lenola, la frequentazione del Centro Sperimentale di Cinematografia, la poesia e ancora l’avvento del fascismo, la guerra, la Resistenza e l’Italia repubblicana: nella sua storia, la storia di ognuno di noi, la Storia del nostro paese. E le istantanee che compongono l’album si dipingono di rosso, il colore della sua passione politica, di una militanza scomoda, tormentata, segnata da conflitti e incertezze, da onestà e coraggio …”. Una storia, anche questa, che ben presto si accompagna alla Storia prendendone a volte il posto, lasciandosi a volte sopraffare da essa. Meno epica, meno struggente, meno eroica di quella dei sette fratelli contadini che vollero farsi uomini prima che eroi. Meno mito, anche. Ma Storia, e che storia. Una storia, quella di Ingrao, che coincide con i destini del comunismo e attraversa i grandi avvenimenti del Novecento ed in cui bruciano le passioni, le battaglie e le scelte di intere generazioni.

Una storia che è la nostra, di storia. La storia  dei nostri anni, dei nostri ideali e delle nostre illusioni.

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