"La donna nella pioggia" di Marina Visentin

C’è un momento ne “La gatta sul tetto che scotta” (il film di Richard Brooks del 1958) in cui Jack Carson (Cooper “Gooper” Pollitt) parlando a sua mamma, nel film, Judith Anderson (Ida “Big Momma” Pollitt) di suo fratello, sempre nel film, Paul Newman (Brick) mentre su tutti loro aleggia la presenza di Liz “Maggie la gatta” Taylor, dice più o meno: “… papà ha voluto che studiassi e io ho studiato; ha voluto che diventassi avvocato, e io sono avvocato; ha voluto che mi sposassi e avessi dei figli ed io mi sono sposato e ho dei figli. Ma lui ha sempre avuto occhi solo per Brick che ha sempre e solo giocato a football …”.

Esattamente come il Cooper del film di Richard Brooks che si è fatto avvocato, marito e padre per compiacere la presenza/assenza di un padre troppo preso da altro, così Stella, la protagonista del libro di Marina Visentin, si è fatta moglie e madre per compensare l’assenza/presenza di una madre scomparsa presto, troppo presto.

In fondo anche Stella, nella sua vita da adulta, nella scelta del marito, nella costruzione della vita stessa, non ha fatto che replicare un’idea di perfezione e di felicità in gran parte fondata sul non detto, quando non addirittura sulla menzogna. Una vita che oscilla, dunque, proprio come oscilla (che in questo caso uso non in accezione negativa ma volendo rendere il senso di un qualcosa che oscilla, ogni momento differente da quello che l’ha preceduto, offrendo continuamente angolazioni e punti di vista a volte anche discrasici) questo “La donna nella pioggia”  tra noir, introspezione psicologica e romanzo di formazione (ma perché costringere questa bella storia in una categoria che, in fondo, nulla vuol dire e nulla può dare, semmai togliere, alla sua compiutezza).

Certo, all’inizio è difficile sopportarne la lettura (punto di vista da maschio, probabilmente) con la mise en place di questo squallore tipico di un certo modello di famiglia (mogliettina, maritino, madre, bambine, casina, amiche/serpenti: quanti danni fa il MulinoBianco), poi, tempo di ingranare, di terminare la presentazione dei personaggi e dell’ambiente (presente quei film con un prologo troppo lungo di cui non si riesce ad afferrare bene il meccanismo né il perché, poi arriva una battuta, un’immagine che appiana il non detto e partono i titoli di testa?) e tutto si fa logico e consequenziale, avvincente e necessario.

“… pensavo di conoscere il posto di ogni cosa, il nome di ogni strada, la mappa della mia vita. Invece …” così confessa la protagonista (e siamo all’inizio). Ed in questa presa di coscienza della propria sconfitta, in questa disperata richiesta di aiuto (ma un aiuto che non da altri se non da se stessa potrà mai venire) sta il succo, uno dei, del narrato.

Perché poi, come in ogni scritto pensato e sofferto (se ne vede di sofferenza in questo), il modo di leggerlo, il livello di lettura può, e deve essere, molteplice.

Ed infatti tutto è uno e trino in questa storia. Il processo di crescita della protagonista (prima c’è la descrizione della depressione da vita mutuata su schemi imposti; a questa fa seguito la presa di coscienza di sé, del proprio fallimento od almeno inadeguatezza; per arrivare, infine, dopo un processo doloroso, sia fisico che interiore, alla liberazione). Ma trine sono anche le situazioni che Stella deve via via affrontare e superare: l’ignoranza (di sé, della propria storia), la rivelazione (che può esserci, se cercata e trovata, qualcosa che darà un senso al vissuto), infine la conoscenza (che arriverà, ma solo dopo aver provato, sofferto e capito). Non a caso, ai tre stati d’animo fanno da contraltare tre situazioni ben distinte che segnano la vita stessa della protagonista: all’intimità dell’inizio, infatti (una vita scandita da regole ferree, orari da rispettare, una casa confortevole ma non a caso situata in una strada a fondo cieco) fa seguito una apertura (alla curiosità, al mondo, alla vita, ben caratterizzata dal viaggio a Torino e sul Lago Maggiore) che si concluderà e troverà la propria giustificazione nella scoperta del mondo e della storia (che qui si intreccia strettamente alla Storia) di sé e della propria famiglia, scoperta che, come in un romanzo d’antan, non potrà che avere la propria disvelanza negli spazi aperti e senza tempo della Patagonia e di Ushuaia, luogo mitico se ne esiste uno nel sentire avventuroso di un paio almeno di generazioni di lettori (“… Ushuaia appare all’improvviso ... la città più a sud del mondo, ma in realtà una volta arrivati qui scopri che non c’è niente di così strano ... il porto, il mare, le stradine in pendenza, le montagne intorno, imbiancate e frastagliate. Però qui davanti c’è CapoHorn, anche se non si vede, un isolotto roccioso battuto dai venti e dalle onde, sospeso fra l’Antartide e la Terra del Fuoco, dove le acque dell’oceano Atlantico si mescolano con quelle del Pacifico. Uno di quei posti dove le navi andavano a morire. Ancora oggi la gente ci arriva solo per poter dire: io ci sono stato, ho doppiato CapoHorn …”.

E se per riuscire ad arrivare a questo risultato bisognerà superare il riconoscimento del fallimento di moglie (del marito che le rinfaccia continuamente come sia sempre e tutta colpa sua, Stella pensa “… cambiava tutto quando mi fissava serio, concentrato su qualcosa che non mi riguardava, una delle tante cose di cui non aveva voglia di parlare … in quei momenti le sue labbra si ritiravano fino a scomparire … ancora adesso dopo 12 anni, mi capita di guardarlo e chiedermi: perché l’ho scelto? Perché mi sono innamorata di lui? E soprattutto, come l’ho potuto trovare bello, un uomo senza labbra? … il padre delle mie figlie avrebbe potuto essere un altro? Sì … anche se dirmelo non mi piace. Però è così: non sono mai riuscita a vederci niente di necessario nel rapporto con l’uomo che ho deciso di sposare …”), la lontananza da ciò che più caro si ha (“… che ci faccio qui? Così lontana dalle mie bambine! Mi mancano così tanto. Mi manca il loro odore, sentirle respirare, vederle sorridere. Le vorrei qui, in questo istante. E stringerle. Forte, fortissimo. Non riesco a trattenere le lacrime. Mi sento perduta …”), affrontare il passato, un passato fatto di storia e di sangue, un passato, e una storia e un sangue, che avrebbe potuto dipingere le pareti della Casa Rosada “… mescolando calcina e sangue di bue. E così diventava anche impermeabile. Immagino che il sangue non lo utilizzino più da un pezzo per fabbricare colori, altrimenti non avrebbero dovuto fare altro che raccoglierlo da terra, in Plaza de Mayo …” fino ad arrivare alla fine del mondo, in un  luogo, Ushuaia, in cui “… non ci venivi in vacanza. Ci venivi perché ti costringevano. I criminali più pericolosi li spedivano qui. Gli assassini di cui nessuno voleva più sentir parlare. Arrivavano per scontare la loro pena, e qui venivano dimenticati. Di soito ci morivano. Senza che nessuno se ne dispiacesse. Assassini …”, tutto ciò, dicevo, non importa. Perché si è disposti a pagare qualunque prezzo, qualunque, per riuscire ad assemblare, novella QueenOfTheRoad (sia concessa la parafrasi di “Im lauf der Zeit” di Wenders) il “… racconto dei nostri ricordi, molto più di una semplice somma la cui identità è inevitabilmente il risultato di tutto ciò che è accaduto nel passato, sia a me personalmente sia alla mia famiglia, compresi eventi accaduti anche molti anni prima della mia nascita …“. Con la consapevolezza, nuova e dolorosa che tornare è sì possibile, ma “… Volver, ritornare. Se vuelve al primer amor. Tornare al primo amore. Davvero? Davvero c’è un tempo dove tornare? Dove si può avere voglia di tornare? …”.

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