Non ho l'età...

“Ragazzo, avrai diritto di parola quando ti saranno cresciuti i peli sull’alluce”: tradotta in italiano suona più o meno così la battuta con cui mio nonno liquidava le osservazioni dei “più giovani”.

A me questa frase ha fatto sempre ridere e riflettere. Ridere perché immagino le reazioni dei possibili interlocutori e riflettere perché racconta involontariamente una realtà e una società – con i suoi valori e le sue regole – che ormai non esistono più.

In cui la parola dei più anziani era quella che contava. Difficilmente modificabile, sicuramente non discutibile una volta espressa.

Un elogio dell’anzianità che troncava sul nascere ogni pretesa “giovanile” e che poggiava sui principi di una società contadina nella quale l’esperienza e la conoscenza acquista negli anni erano il vero valore aggiunto per garantire – o quanto meno provare a garantire - il pane alla propria famiglia.

Le giovani braccia erano necessarie, anzi fondamentali per l’economia familiare (e la nascita di un figlio maschio era vissuta – da bravi proletari - quasi come una benedizione) ma la guida era saldamente nelle mani dei più “esperti”. Erano loro che decidevano i tempi della semina e del raccolto. Erano loro che trattavano l’acquisto o la vendita di bestiame. Erano loro che si facevano carico della sicurezza e del benessere della famiglia.

Chiariamoci. Nessuna nostalgia o voglia di tornare al passato e ad un modello patriarcale e assolutamente rigido e iniquo.

Quello che è accaduto negli ultimi settant’anni nel nostro Paese è storia: quel modello sociale è stato messo in crisi nelle fondamenta dal sopraggiungere dell’industrializzazione e della meccanizzazione di quasi tutti i processi produttivi, dallo sviluppo urbano e dall’aumento di importanza dei settori secondario e terziario, dalla crescita di una piccolo-media borghesia urbana con interessi e problemi differenti che si è fatta promotrice di istanze di emancipazione e affermazione dei diritti civili, politici e sociali su cui si basano gli attuali sistemi democratici liberali.

Un modello che l’attuale rivoluzione digitale ha in qualche modo definitivamente “archiviato” estremizzando al massimo l’”atomizzazione” sociale e capovolgendo in modo risolutivo l’assunto: “anziano = esperto”.

Il “vecchio” è diventato così qualcosa da cui fuggire con tutte le forze (nei casi peggiori da “rottamare”). Sinonimo di mancanza di flessibilità, di incapacità di cambiamento, di lentezza nell’utilizzo e nella comprensione delle nuove tecnologie e quindi della “realtà”. Un qualcosa di intrinsecamente noioso e “fuori dalla storia” che si contrappone alla giovinezza, che al contrario viene vissuta come un valore in sé. Un paradosso non banale per un Paese e un Continente tra i più vecchi al mondo (e che probabilmente trova giustificazione proprio da questo: solo un Paese e un Continente di anziani possono identificare nella gioventù un valore).  

Nell’epoca dei social network, dove tutto scorre veloce, dove ogni giorno è possibile trovare tutto ed il contrario di tutto, dire qualcosa di innovativo è difficile. Forse impossibile.

Si potrebbe provare partire da qui: dal chiarire che l’età oltre ad essere un dato, non può costituire né una colpa, né un valore. Dal farsi promotori di un patto sociale che trovi fondamento sulla collaborazione tra generazioni e che ponga l’accento sull’eguaglianza. Sull’assunto che abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri perché uguali. Portatori di una dignità che non può essere calpestata. Neanche in nome della libertà.

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