La risposta di Stefano Righini alla lettera di Silvana. Che strani i casi nella vita.
Sono qui che sto guardando questa bruttissima Roseto / Virtus, 3^ partita dei quarti di finale dei playoff di Lega2 (è una bruttissima partita, ma quanto si gioca male nel Basket italiano attuale e in Lega2 in particolare, ma lo faccio per “lavoro”, il blog aspetta le mie sciocche considerazioni e domani mi toccherà anche la Fortitudo; lo so, lo so, è uno sporco lavoro, ma quando il lavoro si fa duro, i duri cominciano a … lavorare) e nell’intervallo apro la pagina de “IlTiroMagazine” (oggi non l’ho ancora fatto). Che emozione … la prima immagine che mi colpisce è un viso che conosco bene, davvero bene. Ha i capelli lunghi, neri, fermati da una fascia bianca ed anche la canotta che indossa, con una grande, grande V nera incisa sopra, è bianca. E’ lui, è davvero lui, John “Kocise” Fultz, il mito, il mio mito da giocatore mai arrivato di basket. E’ stato lui, sono stati i suoi capelli lunghi, la bandana ante litteram, i suoi movimenti fluidi, lenti e compassati, il suo tiro mancino speciale e mortifero, è stato quando quel … di Kenney lo ha abbattuto, Fultz lanciato in contropiede contro Milano. E’ stato il fatto che anch’io sono mancino, e tiravo chiaramente di sinistro; è stato che anch’io avevo i capelli lunghi (che strano crederlo, vero?) e fermati da una fascia spugnosa; è il fatto che anch’io giocavo con il numero 11 e nei campetti (campetti, i playground sono arrivati dopo, molto dopo) di Perugia e dintorni di mezza Umbria, mi chiamavano “il figlio di Fultz”. Sarà per uno solo, o per tutti, questi motivi, che io tifo Virtus, se si parla di basket ce l’ho proprio nel sangue, la Virtus (pensate anche che allora, si parla dei favolosi, per alcuni, anni settanta, l’unica squadra che giocava in A, di cui era possibile seguire qualcosa in un mondo orfano ed ancora inconsapevole di Internet, Facebook, Twitter, Instagram ecc…, era la Virtus ed io, da bravo bolognese lontano da casa, prima Pescara, poi Perugia, non potevo che seguire, e amare, la squadra della mia città …).
Naturalmente, abitavo a Perugia quando lui, John, era il califfo più califfo di tutti: lui e la sua Harley, lui e il camper che usava per spostarsi in cerca di campetti (il preferito era ai Giardini Margherita o sotto il ponte di via Libia) dove giocare, libero e selvaggio, come il suo sedicesimo di sangue nativo americano imponeva.
Naturalmente, quindi, non l’ho visto giocare dal vivo praticamente mai. In Tv qualche volta, e si parla di sfide epocali come quella contro Milano quando quel … di Kenney …
Lui però, era John, era “Kocise”, era John “Kocise” Fultz e non mi importava vederlo dal vivo, bastava saperlo giocare e saperlo giocare con e per la Virtus.
Poi, anni dopo, tornato a Bologna, e provato a giocare a basket anche qui (e resomi conto amaramente che, a Bologna, il basket giocato era tutto un altro sport da quello che avevo praticato fino ad allora), mi capitò di vederlo John Fultz (ormai, gli anni d’oro del gioco erano passati, solo Fultz, non più “Kocise”).
Viveva a Bologna allora, una città che gli era rimasta nel cuore, e capitava spesso di vederlo in giro, in giro per la città, in un bar (ricordo di averlo incontrato più volte all’allora “LaRaquette” di via Rizzoli o all’adesso scomparso “Tiffany” all’angolo tra Rizzoli e Oberdan) ma più spesso al “Moretto” la bella vecchia storica, allora, osteria fuori porta D’Azeglio. Lo incontravo e dopo un po’ diventammo non dico amici, ma conoscenti, compagni di un caffè o una birra. E di chiacchiere, chiacchiere di basket, di quello che era stato per lui e di quello che aveva regalato a me, a noi, ai suoi tifosi.
Che bei ricordi, Silvana, grazie.
E allora, per finire, finendo mi ricollego in qualche modo alla tua lettera. C’è un Fultz che gioca stasera, gioca negli squali di Roseto, ma non è John (che oggi avrebbe 69 anni, ma gli anni, si sa, i miti, non li compiono mai; restano sempre giovani e belli); è Robert, suo figlio.
Sono qui che sto guardando questa bruttissima Roseto / Virtus, 3^ partita dei quarti di finale dei playoff di Lega2 (è una bruttissima partita, ma quanto si gioca male nel Basket italiano attuale e in Lega2 in particolare, ma lo faccio per “lavoro”, il blog aspetta le mie sciocche considerazioni e domani mi toccherà anche la Fortitudo; lo so, lo so, è uno sporco lavoro, ma quando il lavoro si fa duro, i duri cominciano a … lavorare) e nell’intervallo apro la pagina de “IlTiroMagazine” (oggi non l’ho ancora fatto). Che emozione … la prima immagine che mi colpisce è un viso che conosco bene, davvero bene. Ha i capelli lunghi, neri, fermati da una fascia bianca ed anche la canotta che indossa, con una grande, grande V nera incisa sopra, è bianca. E’ lui, è davvero lui, John “Kocise” Fultz, il mito, il mio mito da giocatore mai arrivato di basket. E’ stato lui, sono stati i suoi capelli lunghi, la bandana ante litteram, i suoi movimenti fluidi, lenti e compassati, il suo tiro mancino speciale e mortifero, è stato quando quel … di Kenney lo ha abbattuto, Fultz lanciato in contropiede contro Milano. E’ stato il fatto che anch’io sono mancino, e tiravo chiaramente di sinistro; è stato che anch’io avevo i capelli lunghi (che strano crederlo, vero?) e fermati da una fascia spugnosa; è il fatto che anch’io giocavo con il numero 11 e nei campetti (campetti, i playground sono arrivati dopo, molto dopo) di Perugia e dintorni di mezza Umbria, mi chiamavano “il figlio di Fultz”. Sarà per uno solo, o per tutti, questi motivi, che io tifo Virtus, se si parla di basket ce l’ho proprio nel sangue, la Virtus (pensate anche che allora, si parla dei favolosi, per alcuni, anni settanta, l’unica squadra che giocava in A, di cui era possibile seguire qualcosa in un mondo orfano ed ancora inconsapevole di Internet, Facebook, Twitter, Instagram ecc…, era la Virtus ed io, da bravo bolognese lontano da casa, prima Pescara, poi Perugia, non potevo che seguire, e amare, la squadra della mia città …).
Naturalmente, abitavo a Perugia quando lui, John, era il califfo più califfo di tutti: lui e la sua Harley, lui e il camper che usava per spostarsi in cerca di campetti (il preferito era ai Giardini Margherita o sotto il ponte di via Libia) dove giocare, libero e selvaggio, come il suo sedicesimo di sangue nativo americano imponeva.
Naturalmente, quindi, non l’ho visto giocare dal vivo praticamente mai. In Tv qualche volta, e si parla di sfide epocali come quella contro Milano quando quel … di Kenney …
Lui però, era John, era “Kocise”, era John “Kocise” Fultz e non mi importava vederlo dal vivo, bastava saperlo giocare e saperlo giocare con e per la Virtus.
Poi, anni dopo, tornato a Bologna, e provato a giocare a basket anche qui (e resomi conto amaramente che, a Bologna, il basket giocato era tutto un altro sport da quello che avevo praticato fino ad allora), mi capitò di vederlo John Fultz (ormai, gli anni d’oro del gioco erano passati, solo Fultz, non più “Kocise”).
Viveva a Bologna allora, una città che gli era rimasta nel cuore, e capitava spesso di vederlo in giro, in giro per la città, in un bar (ricordo di averlo incontrato più volte all’allora “LaRaquette” di via Rizzoli o all’adesso scomparso “Tiffany” all’angolo tra Rizzoli e Oberdan) ma più spesso al “Moretto” la bella vecchia storica, allora, osteria fuori porta D’Azeglio. Lo incontravo e dopo un po’ diventammo non dico amici, ma conoscenti, compagni di un caffè o una birra. E di chiacchiere, chiacchiere di basket, di quello che era stato per lui e di quello che aveva regalato a me, a noi, ai suoi tifosi.
Che bei ricordi, Silvana, grazie.
E allora, per finire, finendo mi ricollego in qualche modo alla tua lettera. C’è un Fultz che gioca stasera, gioca negli squali di Roseto, ma non è John (che oggi avrebbe 69 anni, ma gli anni, si sa, i miti, non li compiono mai; restano sempre giovani e belli); è Robert, suo figlio.
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