“Dopo 40 anni, preso il palazzo della cultura reazionaria”

Naturalmente sto (stiamo) scherzando.

A parte il linguaggio da comunicato volutamente virato sulla falsariga di un ipotetico volantino di quegli anni, allora, nel ’77, il Comunale, inteso come Teatro, era davvero visto un po’ come il centro di una cultura vecchia e polverosa che si ergeva in tutta la propria estetica conservatrice come estremo baluardo nei confronti di una cultura più giovane e viva che stava nascendo proprio in quegli anni.

Naturalmente, adesso, ripensare a quell’antica contrapposizione fa sorridere.

Comunque ecco, a sancire un riavvicinamento per una rottura che in realtà non c’è mai stata, la bella mostra curata da Enrico Scuro (con foto scattate, oltre che da lui stesso, da Giancarlo vitali Ambrogio, Fabio Pancaldi, Luciano Cappelli, Valerio Medica e Giuseppe Cannistrà) che fino al 28 aprile è visitabile proprio nel foyer Respighi del Teatro Comunale (entrata da Piazza Verdi) dal martedì al venerdì dalle 12,00 alle 15,30.

La mostra, come detto, è davvero molto bella (sempre che il termine non sia inteso in senso improprio come in effetti è). La forza di questo “Assalto al cielo – le immagini del ‘77”, non è tanto, infatti o non solo, nella bellezza delle foto esposte, che da un punto di vista puramente tecnico sono comunque belle con questo B/N denso e corposo che nulla ha perso della forza documentaria di allora, adesso anzi impreziosita da una patina di indiscutibile storicità così aliena alla frenetica sovrapposizione mediatica tipico di certo revisionismo tanto di moda nella ricerca di un consenso facile e superficiale che caratterizza questi nostri tempi.

Per questo motivo, bisogna ringraziare chi con serietà, senso di appartenenza, voglia e bisogno di non dimenticare ha condensato in questa mostra fotografie, con la complice sensibilità e lungimiranza della new governance del Teatro Comunale stesso, documentari e interventi (esplicativi gli abstract di Jimmy Bellafronte, Paolo Ricci, Valerio Minella, Luca Sorbo, Massimo Marino e quel “Un modo nuovo di fare comunicazione” di Roberto Grandi riferito all’esperienza di radio Alice che è ormai un piccolo classico) che offrono un quadro vivido e vero dei movimenti artistici culturali politici che, prima, portarono a quel sentimento unito e, dopo, si insinuarono forti nel tessuto connettivo stesso della percezione collettiva di chi, di lì a poco, sarebbe stato chiamato a far parte di una società civile che si sperava diversa (per tutti, il testo fondante di Franco Bifo Berardi: “… la notte leggevamo Majakovski e i suoi versi nella nostra mente evocavano screziature frivole e animali di cemento … poi venne il tempo dell’assalto al cielo … e tutto pareva possibile a partire dalla forza illimitata del sapere collettivo e dell’amore. Talvolta capitava di andare a letto tardi. Aspettando eccitati il risveglio mattutino. Recentemente … quella felicità si è fatta intermittente … sebbene non sempre ricordiamo il motivo per cui siamo stati felici, non possiamo dimenticare di esserlo stati …”.

Fotografie,  documenti e filmati (una miscellanea di quelli realizzati in quegli anni dai DodoBrothers di Andrea Ruggeri) che possono senza dubbio apparire distrofici se rapportati al comune sentire odierno quando venisse chiamato a raffrontarsi con allora, un allora venato, ancora ed ancora ingiustificatamente, di zone scure, zone d’ombra che più lineari e chiare, invece, non si potrebbe.

Così, d’impatto, se proprio una critica, un appunto, si volesse, si potrebbe fare alla mostra (mi rendo conto scrivendo che sono due), il primo è che sono state esposte troppe poche foto (ma lo spazio, si sa è tiranno; d’altronde chi allora c’era, di queste fotografie vorrebbe vederne ancora e ancora e ancora); il secondo è non avere privilegiato, come il titolo stesso della mostra suggerirebbe, le immagini solo del ’77, quelle degli scontri, quelle della città e dell’università, della cultura e della civiltà violate (molte immagini sono riferite infatti alla epocale manifestazione che si svolse l’anno dopo). Ma poi, ripensandoci, io, che quegli anni c’ero, ed è un triste pensare ai vent’anni di quarant’anni fa, e ne conservo gelosamente foto e ricordi, non posso che condividere la scelta fatta. Perché se è vero, com’è vero, che gli anni che seguirono furono, come da definizione, “di piombo”, è anche vero che da quella tragedia, da quelle esperienze di resistenza (o resilienza com’è così a sproposito di moda dire oggi ma che in questo caso è davvero vero) nacquero realtà espressive e creative che hanno segnato indelebilmente la società che è seguita (per questo forse, alla signora che mi si è avvicinata, chiedendo, quasi scusandosi e dandomi del lei, se non mi facesse tristezza vedere quelle foto, non ho potuto che rispondere: “… certo, tristezza; ma anche tanta allegria, anche se allegria non è il termine più giusto, tanto sollievo. Perché rivedo, in quelle immagini mai sbiadite, un senso di appartenenza, un senso del comune stare insieme alla ricerca di un comune bene, una comune verità, una comune giustizia che non può che farmi sorridere …”). Tante parole, me ne rendo conto adesso a distanza di qualche giorno, quando sarebbe stato così semplice definirla come partecipazione. Partecipazione: quella cosa di cui si riempiono la bocca certi politici quando devono giustificare decisioni dettate da vaghe unità d’intenti, ma che in quell’occasione fu realtà quotidiana, realtà vissuta giornalmente da tanti, compagni e militanti, gente comune e simpatizzanti, semplici studenti e docenti, e che da quel genio colpevolmente dimenticato che è Giorgio Gaber veniva identificata con un concetto bellissimo e terribile: libertà. Quella partecipazione che permise a me studente perditempo, di venire a conoscenza in tempo praticamente reale del fatto e di ritrovarmi, la sera stessa, asserragliato con gli amici di allora in un appartamento di via De’Rolandis e la mattina dopo, insieme a migliaia d’altri, al primo, intenso, numeroso, corteo. La stessa partecipazione che pochi, pochissimi anni dopo tornò a farla da padrone, a permeare di sé il tessuto vivo e vitale della comunità quando, un buio 2 agosto, la bomba esplose alla stazione di Bologna. Io all’ora dello scoppio ero in centro, e mezz’ora dopo ero in stazione ormai tutta transennata ed impossibile da raggiungere. Non c’erano cellulari, smartphone, internet o facebook, ma la città tutta era già lì, a cercare di capire, per essere testimone, a cercare di aiutare. Questi sono i tempi andati, quelli che ricordiamo, noi che c’eravamo e li abbiamo vissuti. I tempi che ci mancano. Certo, la giovinezza andata, trascorsa, perduta.

Ma dietro quel rimpianto ineludibile, un altro, altrettanto forte e doloroso ci attanaglia. Non è più tempo di partecipazione …

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