L’uomo che cadde sulla terra

“… There’s a starman waiting in the sky / He’d like to come and meet us / But he thinks he’d blow your minds / There’s a starman waiting in the sky / He’s told us not to blow it / Cause he knows it’s all worthwhile / He told me: / Let the children lose it / Let the children use it / Let the children boogie …” (per una traduzione che dovrebbe, o potrebbe, essere: “… C’è un uomo delle stelle che aspetta in cielo / Vorrebbe venire e incontrarci / Ma pensa che potrebbe impressionarci / C’è un uomo delle stelle che attende in cielo / Ci ha detto di non distruggerlo / Perché lui sa che ne vale la pena / Mi disse: / lascia che i bambini lo perdano / lascia che i bambini lo usino / lascia che i bambini ballino …”)

In effetti non ho trovato nulla di meglio che il ritornello della indimenticabile “Starman” di Bowie per introdurre questo “L’uomo che cadde sulla terra” di Walter Tevis, splendido esempio di fantascienza NON tecnologica, una pura sintesi del genere che gli esperti definiscono fantascienza soft (dall'inglese soft science fiction, una fantascienza cioè che si concentra sui sentimenti umani piuttosto che sulla tecnologia o sulle scienze esatte e che si basa su discipline come la filosofia, la psicologia, la politica e la sociologia) e che a me piace definire anche come filosofica (ma anche religiosa: come non riconoscere in questo ascetico, dolente, umanissimo Mr.Newton/Rumpelstiltskin un moderno, modernissimo oltretutto, salvatore altro, straniero, migrante, venuto a portare luce sapere benessere e, nelle intenzioni, pace e amore? Come non pensare a lui come a un predestinato, soprattutto se si considerino i titoli originali delle tre parti in cui il romanzo è suddiviso: 1986 La discesa di Icaro - 1988 Rumpelstiltskin - 1990 L’annegamento di Icaro).

Eppoi, non ho trovato nulla di meglio, e in verità non molto ho cercato, perché mai come in questo caso basta il nome. Sfido chiunque, se si dice uomo che cadde sulla terra, a pensare al dimenticato romanzo edito nel 1963 (proprio in quesgli anni a San Francisco prima e in tutti gli States poi, scoppiò la bolla dell’hyppismo senza confini) dell’altrettanto poco ricordato Walter Tevis e non al film del 1976 di Nicolas Roeg con interprete, appunto, David Bowie (anche per questo l’immagine che mi viene da associare al romanzo non può che essere una delle bellissime fotografie di Brian Duffy scattate in occasione del lancio del disco “Ashes to ashes” nello specifico quella famosissima di Bowie/Pierrot).

Questo, naturalmente, non vuol essere un giudizio di merito sul romanzo o sul film, soprattutto non sul romanzo contrapposto al film.

Anche perché Tevis all’epoca dell’Uomo era già una piccola star. Aveva già scritto, infatti, “The hustler” che fu ben presto, alla fine degli anni ’60, trasposto in film da Robert Rossen con Paul Newman nella parte di Eddie Fast Nelson, the hustler appunto o “Lo spaccone” come lo definiva il titolo italiano.

Ma tornando a noi, e all’uomo che cadde sulla terra, c’è una sensazione che ho provato, forte, leggendo il romanzo (una lettura facile grazie ad una scrittura piana, veloce, che non indulge ad approfondimenti, che non si perde in rimandi o complicati intellettualismi, in cui nulla viene sotteso e tutto è lì sotto gli occhi del lettore. Tutto è lì. Apparentemente); ed è quella di una profondità, una attenzione, una malinconia venata dalla consapevolezza dell’impossibilità del vivere una vita normale: verrebbe quasi da pensare a “… quante cose, quante cose belle ci sono, si possono pensare, ideare, realizzare. Però, ci sarà sempre qualcosa, un qualcosa non dipendente da noi, dalla nostra volontà ad impedircelo o quantomeno a renderne difficoltosa la realizzazione”.

La vita stessa di Tevis, d’altronde, può apparire anch’essa piana, veloce, non complessa. Nato alla fine degli anni ’20, muore nell’84. In vita, fu alcolista e farmacodipendente. Come detto, raggiunse il successo subito, grazie alla trasposizione hollywoodiana del suo primo romanzo “Lo Spaccone”, ma viene ricordato, e rimpianto, soprattutto per i suoi tre romanzi di fantascienza: “L’uomo che cadde sulla terra”, e poi, dopo quasi vent’anni di silenzio, “Futuro in trance” (una sorta di riscoperta dell’umanità in un mondo reso sterile dalla volontà dell’ultimo esemplare di robot di generazione evolutissima) e “A pochi passi dal sole” (quasi una ripresa, possibilista questa volta, delle tematiche già presenti nell’uomo e che presenta non pochi punti di contatto con la vita reale dello stesso autore: dal titolo parafrasato da un verso di William Blake, autore amatissimo da Tevis, alla confessione di Benjamin, il protagonista, quando dice «Chemical euphoria was my real companion»). Infine, “La regina degli scacchi” (con il titolo originale, “The queen gambit” che ci riporta al gambetto di donna, una mossa fondamentale nel gioco degli scacchi, che permette, a chi l’effettua, un netto vantaggio strategico a fronte del sacrificio del pedone di donna) a suo modo autobiografico (quando la protagonista, Beth Harmon, che ha imparato a giocare a scacchi in orfanatrofio, diventa una campionessa in grado di sfidare e battere i grandi maestri russi, e in questo è facile riconoscere un omaggio a Bobby Fisher l’unico giocatore americano capace di diventare campione del mondo proprio in quegli anni, nasce in lei un desiderio smodato ed incontrollabile di bere) ed infine, nemesi della sua opera probabilmente non involontaria, “Il colore dei soldi” in cui uno stanco, sfiduciato e disilluso Eddie Felson ricompare per una suggestiva quanto dolente rivincita.

Nessuno di questi romanzi diventò mai un bestseller. Nessuno raggiunse le cime delle classifiche. Ma di questi sei romanzi, ben tre diventarono film: oltre ai già ricordati “Lo spaccone” e “L’uomo che cadde sulla terra”, anche “Il colore dei soldi” divenne un grande successo nell’interpretazione dello stesso, invecchiato, Paul Newman e di Tom Cruise per la regia di Martin Scorsese.

 

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