La vita davanti a sé

Confesso la mia ignoranza. Chi sia Vittorio Lingiardi, io non lo so. Né la ricerca su wikipedia riesce ad illuminarmi: “… psichiatra e psicanalista, professore ordinario di psicologia dinamica presso la facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza (Roma), è anche autore di due raccolte di poesie ...”.

Forse è questa sua seconda attività di autore che fa sì che curi una rubrichetta (“Psycho”) sul Venerdì di Repubblica.

Come che sia, è proprio in questa sede (la prima volta che mi ci soffermo da lettore saltuario del magazine) che parla di un libro da lui appena letto. Un libro che io amo molto e che conosco da tempo (il libro è del 1975 e l’edizione che si trova oggigiorno in libreria, di NeriPozza, è del 2009) forse perché impiego molto del mio tempo a leggere libri anche vecchi, o forse è solo la curiosità che mi lascia affascinato ancor prima della lettura del testo dalla biografia dell’autore, o dal suono del titolo, o dall’affabulazione della sinossi.

Fatto sta che questo “La vita davanti a sé” è uno dei romanzi (piccolo romanzo, grandissimo romanzo) che amo davvero di più e che consiglio a tutti, indiscriminatamente.

“La vita davanti a sé” (che è anche, casualmente, un modo per augurare buon anno) lo ha scritto quarant’anni fa Romain Gary, pseudonimo di Roman Kacew, un ebreo lituano naturalizzato francese a vent’anni, eroe di guerra, diplomatico, scrittore, marito libertino di Jean Seberg, infine suicida nell’ appartamento di Rue du Bac che aveva condiviso con l’attrice (suicida anch’ella solo un anno prima) con un colpo di pistola alla testa sparato non prima di avere indossato una vestaglia rossa acquistata qualche ora prima in Place Vendóme per non impressionare troppo con il colore del sangue chi lo avrebbe ritrovato. Da notare come in russo “gari” significhi “brucia”, e il bruciare, la vita le avventure la scrittura (presente “Blade Runner” quando a RoyBatty/RutgerHauer viene fatto notare come “… la candela che brucia da tutte e due le parti, ha una luce più intensa ma dura la metà …”? ecco, una cosa del genere) sembra essere davvero l’intento saliente del vivere di Kacew: l’infanzia nel ghetto di Vilnius, l’adesione al fronte di liberazione di Charles De Gaulle, la guerra vissuta come eroe dell’aria (decorato con la legion d’onore terminerà la guerra come “compagnon de la Libération”), la successiva carriera diplomatica (console generale di Francia a Los Angeles, California), due premi Goncourt di cui uno, per questo libro, con un altro dei suoi tanti pseudonimi (tra gli altri Fosco Sinibaldi e Shatan Bogat), Émile Ajar, più che uno pseudonimo, un vero e proprio eteronimo, un giovane immigrato figlio di un pied-noir e di una donna berbera che racconta, romanzandola ed intrecciandone gli accadimenti con la stessa materia di cui sono fatti i sogni, la propria infanzia.

Una simile vita non può, lo si capirà, aver ispirato un solo romanzo per quanto epicentrico nella sua produzione.

Tra i tanti altri, impossibile non ricordare/consigliare almeno “Cane bianco” (scritto durante la permanenza negli Stati Uniti, ambientato nel fatuo mondo hollywoodiano ed incentrato sulla figura di un cane, il cane del titolo appunto, un vero e proprio white-dog, una di quelle bestie addestrate nell’America razzista sul finire dei sixties a dare la caccia ai neri) o “La notte sarà calma” (una lunga intervista fittizia di cui Kacew/Gary scrisse sia le domande sia le risposte utilizzando come prestanome per le prime l’amico d’infanzia e giornalista svizzero François Bondy, un magnifico pamphlet sulla impossibilità dell’identità) o infine “Biglietto scaduto” (sorta di confessione/introspezione sulla inutilità del vivere una volta che vengano meno gli stilemi assunti, per tutta una vita, come dogmi irrinunciabili).

Ma tornando a “La vita davanti a sé” (la vita narrata è quella di Momò, ragazzino arabo allevato da un’ex prostituta ebrea sopravissuta ad Auschwitz, Madame Rosa, e cresciuto nel quartiere multietnico di Belleville tra puttane, analfabeti e protettori e Simone Signoret sarà una magnifica Madame Rosa nel film di Moshè Mzrahi che le varrà l’Oscar), tecnicamente il linguaggio è pura invenzione, la storia si dipana tra etnie e religioni, povertà ed abbandoni, umanità ed avventure.

Ma attenzione. “… non è un romanzo leggero: è un libro che fa star male, che fa star bene, che far star vivi. Ed è un libro per chi ama Parigi, à bout de souffle prima che arrivino Françoise Fillon e Marie Le Pen ...”.

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