"Il fiume delle nebbie" di Valerio Varesi

Soneri è un poliziotto in forza alla Questura di Parma che, non più giovanissimo, ama la buona tavola e il vino e cerca di allontanare da sé un passato sentimentale che si intuisce triste intessendo un rapporto assai irregolare con una brusca e focosa avvocatessa, Angela. Quando si trova alle prese con due morti misteriose in questo “Il fiume delle nebbie”, si troverà in realtà a dover scavare nella Storia (quella con S maiuscola) per tentare di dipanare la storia (mai come in questo caso le due storie, quella maiuscola e quella minuscola, si intrecceranno indissolubilmente) dei due assassinati, gli anziani fratelli Tonna, Anteo (il barcaiolo svanito nel fiume abbandonando la sua chiatta alla forza del Po in piena e ripescato cadavere nella golena allagata, quella terra di confine tra acqua e terra, tra sogno e realtà, tra nebbia e notte) e Decimo (l’altro, precipitato dalla finestra di un ospedale dove trascinava una vita elusiva e di contorno, quasi nascosta) entrambi con un sanguinoso passato ai tempi del fascismo e di Salò.


L’inizio, il capitolo iniziale con quella descrizione umida e fredda, viscida e nebbiosa, fangosa e ineluttabilmente conscia di quel che accadrà del grande fiume ingrossato che tutto porterà via con sé e tutto, al contempo, riempirà di sé medesimo (umida nebbia fangosa e fredda), è avvincente come una mano vischiosa ed invisibile che ti prende e ti stringe e struggendoti promette di non lasciarti più. Né il cuore, né l’anima, né il ricordo.


Poi, però, l’indagine, il dipanarsi della stessa tra le solite lentezze (complice anche l’inclemente meteorologia) incomprensioni (con il magistrato che deve autorizzare il caso) gelosie (di Angela) rivalità (un ramo dell’inchiesta, quello che promette più visibilità, in mano ai cugini carabinieri, Soneri non dimentichiamo è commissario di polizia) prende il sopravvento.


E tranne pochi momenti in cui l’atmosfera della bassa, i portici e le osterie, il fiume e la nebbia, tornano a riempire di sé le pagine dell’autore, il romanzo si perde. Si perde in una scrittura semplice, fin troppo semplice, affrettata e ripetitiva caratterizzata, ahinoi, da un susseguirsi di dialoghi al limite del ridicolo, didascalici e inadeguati.


Più di ogni altra cosa, però, è il decorso dell’indagine a essere raffazzonato così come non esiste filo logico nelle scelte e nei movimenti del protagonista. Tutto sembra avvenire per caso (e se anche questa potrebbe essere una scelta voluta, esempi alti ce ne sono di plot all’apparenza casuali ed invece fortemente causali, non sembra il caso di questo romanzo). I personaggi, a parte i pochi centrali ai quali bisogna riconoscere una buona caratterizzazione, compaiono e scompaiono senza lasciar traccia, inutili, buoni solo, forse, a riempire qualche pagina se non solo qualche riga consentendo così di arrivare alle fatidiche 250/300 pagine che garantiscono la pubblicazione.


Varesi, insomma, sembra più preoccupato a trovare il modo di parlare di qualcosa che gli sta molto più a cuore (e ci mancherebbe, gli argomenti suggeriti sono il ventennio, la resistenza, il triangolo rosso) a scapito, però, di quello che dovrebbe costituire la centralità del romanzo, e cioè l’inchiesta poliziesca.


E purtroppo, le duecentocinquanta pagine che ha scritto avranno coinvolto sì l’interesse dell’editore, ma non quello del lettore, non soprattutto con questa conclusione che conclusione non è. Ma non perché, rimanendo essa spiegazione finale, aperta, regali la possibilità di futuri scenari complementari, semplicemente perché, contraddicendo la regola aurea  che garantisce la corrispondenza nel rapporto scrittore (di gialli) / lettore (di gialli), regala un colpevole sconosciuto e stancamente romanticizzato.


Tranquilli, comunque; pur sovvertendo ogni logico pudore quando si parla di gialli, non ho anticipato nulla (nulla essendovi da essere anticipato) ed in ogni caso lascio la promessa di un ambience che vale da solo la fatica, piacevole, della lettura. Un ambience che per certi versi ricorda la folgorante (questa sì davvero da ricordare) opera prima di un autore che purtroppo ci ha abbandonati troppo presto. Sto parlando di Carlo Mazzacurati e della sua “Notte italiana”.

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