ArteFiera 2017: una stanca kermesse nel cuore di Bologna

Archiviato questo weekend denso di impegni ed aperitivi, party più o meno esclusivi ed appuntamenti imperdibili, concerti che sarebbero potuti essere spostati ad altra data e solitari lampadari falso rococò tristemente appesi in alto che più in alto non si può sui tiranti di portici sotto i quali mai nessuno alzerà gli occhi ma spacciati per elitari progetti di luce,  cosa resterà di questa 41^ edizione di ArteFiera, una delle più brutte che si ricordi? Innanzi tutto, però, sia perdonato il termine: definirla brutta, infatti, non è sufficiente a descrivere il velleitarismo di questa stanca kermesse che dimostra ormai tutta la sua età, un’età portata male, malissimo, e che farebbe propendere per una cadenza biennale, ma poi sai le lamentele, i j’accuse, l’orfanitudine dei forzati della mondanità ad ogni costo, quelli dell’aperitivo a sbafo, ma anche pagato, solo che sia champagne dozzinale e basico ma vuoi mettere, lì ad ArteFiera, con tutto il mondo, il bel mondo, che ti guarda e ti sgomita per sottrarti l’ultima tartina, l’ultima patatina, l’ultima nocciolina?
Comunque non c’è problema. Sulla stampa locale si possono già leggere entusiastici commenti su quanto è stata bella, su quanto è stata organizzata bene, su chi c’era (e chi non c’era? cioè quasi tutto il mondo artistico che conta?), e su come siamo contenti, noi galleristi, per questa rinascita, per questo nuovo inizio di un’avventura che sarà lunga, lunga e gloriosa e bla bla bla..
La realtà, una realtà percepita trascinandosi stancamente lungo i quattro lunghi corridoi (due per ogni padiglione) che fiancheggiavano gli stand, è stata di un’esposizione in tono minore. Tante, tantissime, forse troppe gallerie bolognesi con il loro afflato di déjà vu. Di davvero internazionali, invece, poche, pochissime, le solite.
Anche quelli che sarebbero dovuti essere i fiori all’occhiello della neo direttrice Angela Vattese, e cioè la fotografia e la sezione “NuevaVista”, hanno deluso.
Soprattutto la fotografia, curata dalla stessa Vattese, di una impalpabilità imbarazzante: solo una mezza dozzina di stand e se si escludono i classici Fink, la scuola italiana dei Basilico, Ghirri, Giacomelli, Migliori ecc, esposti dai soliti e benemeriti Contrasto e Damiani, davvero nulla sia come proposte, sia come novità. Certo, c’era Pierre Pellegrini dalle ripetitive sfumature pur sempre evocative; c’era, ancora e chissà fino a quando, Massimo Vitali e le sue figurine esili e colorate su sfondi bruciati ed inintelleggibili;
e c’era Irene Kung dalla materica imponenza. Ma se poi si vuole spacciare per nuova e significativa l’opera di Silvia Camporesi (praticamente ogni stand con qualcosa di fotografia appeso, aveva una sua opera. Il mercato, perché qui si tratta di mercato non certo d’arte, d’altronde si sa è strano: fino ad un paio d’anni fa, tutti pazzi, anch’io, per Samorì; sembrava che nessuna galleria potesse presentarsi sul palcoscenico di ArteFiera senza esporre un suo lavoro.
Quest’anno sembra sparito, ed ecco al suo posto la Camporesi, l’ennesima stanca ripetitiva inutile scolastica epigone di Candida Hőfer) …
Per il resto, il solito gigantismo di Mitoraj, qualche Schifano, i dervisci di Mondino, i tagli di Fontana e le mappe di Boetti, molto astrattismo già visto e digerito da tempo, stanchi tentativi di stupire (uno stand addobbato come per l’entrata in un circo), un altro, stand, che presentava solo Burri (uno dei SoloShow che avrebbero dovuto costituire un’altra delle novità di quest’anno) …
Resta quindi da raccontare quello che è stato l’altro, in una città sommersa dalle possibilità.
Qui, è chiaro, si va a sensazioni, ad emozioni. Personali, ça va sans dire.
Prima di dedicarmi a quello che una volta si definiva Off, mi piace però partire per questo breve excursus, cosa strana, dalla inaspettata mostra “Lotscucht” di Jonas Burgert al Mambo. La gestione di Laura Carlini Fanfogna, passata così inosservata, ha prodotto frutti copiosi. A prescindere dalla folgorante mostra su Bowie, è questa dell’artista tedesco ad essere veramente una mostra come a Bologna non si vedeva da tempo. Intensa, materica, esaustiva, impressionante se si
lascia passare il termine.
Per il resto, delle mostre “Kirakirà” di Murakami Takashi in galleria Cavour e “Lumen” di Nino Migliori presso l’Oratorio dei Battuti nel complesso di Santa Maria della Vita in via Clavature 8, così come della mostra “La seconda generazione”, la graphic novel di Michel Kichka al Museo Ebraico, abbiamo già detto.
Rimane giusto lo spazio, che come si sa è tiranno, per raccontare, o almeno citare, alcuni luoghi fascinosi una volta dimenticati ed ormai diventati abituali (come l’ExAtelier Corradi che ha presentato
“L’instabilità degli oggetti” installazioni di piccolo formato, video ed immagini a cura di Pietro Gagliano tra i quali spiccava “Il liocorno di Lescaux” di Luca Capuano o il complesso dei Bastardini nelle cui sale dall’atmosfera così pregnante, spiccavano le statue, classicamente senza tempo, di Decio Zoffoli e le incisioni certosine
di Francesco Casorati) o altri, altrettanto se non più ancora evocativi appena riscoperti e consegnati al pubblico (l’ex negozio Gavina di via Altabella ove erano esposte le “Causerie” di Calori&Maillard o l’ex laboratorio Elios che ha presentato “Memo/Box2, Elios drive-in, officina Giuliani”, le grandi sculture di Giuliano Giuliani per l’occasione riospitate negli spazi del celebre laboratorio eliografico da lui stesso creato a metà degli anni ’60).
In ultimo, non posso dimenticare il “Tributo al Caccia – Luigi Caccia Dominioni a Bologna” allestito in Corte Isolani.
Infine, e davvero in ultimo, per tornare all’istituzionalità, la mostra “Oltreprima – la fotografia dipinta” negli spazi della FondazioneDelMonte in via delle Donzelle e, tra le tante gallerie che hanno esposto il meglio di sé, quella che più mi ha colpito è la mostra “Testamentari, maschere senza volto” che la Galleria L’Ariete/artecontemporanea di via D’Azeglio ha dedicato ad un grande artista bolognese, Maurizio Bottarelli.

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