“Orlando Furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”

Chi legge i romanzi fantasy, si è imbattuto sicuramente in quel passaggio più o meno segreto, raggiungibile attraverso prove faticose, che è lo stargate, la porta tra una dimensione temporale e un’altra, tra un mondo conosciuto ed uno ignoto o forse a malapena intuito.


A volte abbandonare le coordinate del tempo attuale per calarsi in un’altra dimensione è molto semplice: basta comprare il biglietto di una mostra ben costruita, evocativa, che sollecita la mente e il sentimento di guarda come quella attualmente a palazzo dei Diamanti di Ferrara.


Cinquecento anni fa,  22 aprile 1516 proprio a Ferrara, veniva stampato un poema che in letteratura sarà l’opera esemplare della grande stagione delle corti rinascimentali italiane: l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.


La città di Ferrara era uno dei centri di questa stagione dove s’intendeva coniugare buona politica nella gestione del bene comune e mecenatismo illuminato; per volere dei duchi d’Este arrivarono a Ferrara quasi tutti i maggiori artisti operanti nei secoli XVI e XVII e solo nel 1598, la devoluzione del ducato estense allo stato della Chiesa, decreterà la fine delle virtuose imprese ducali, anzi, invertirà il flusso di opere d’arte in una diaspora di dipinti, sculture, bronzetti realizzati per gli Este, che migrarono più o meno lecitamente verso collezioni e quindi musei d’Italia e del mondo.


2016-11-01-ariostoL’autore di Orlando Furioso, Ludovico Ariosto, era tra gli intellettuali della corte, al servizio dapprima del cardinale Ippolito d’Este e quindi del fratello di questi Alfonso I, duca reggente della città e del contado.


I curatori della mostra si sono chiesti opportunamente quale fosse l’ universo d’immagini intrecciato alle parole del suo poema, quale il patrimonio visivo Ariosto aveva come riferimento intellettuale e sentimentale; il progetto, semplice nell’enunciazione, difficile in una realizzazione didattico-divulgativa senza banalizzare la grandezza dell’opera ariostesca,  è già efficacemente presentato nel titolo, in quel “cosa vedeva Ariosto…” che promette di presentarci l’elegante sintesi di un mondo scomparso ma del quale siamo figli e che ha lasciato tracce nel nostro modo di vivere e soprattutto vedere.


Il mondo cortese di Ariosto, quei “cavalier, armi e amori” che aprono la prima ottava del poema, vengono così tradotti potentemente con la forze delle opere in mostra, sapientemente inserite in una robusta trama di riferimenti storici e di lettura del testo poetico, entrambi coordinati da un allestimento che, doverosamente (cosa che accade sempre più raramente) si mette al servizio di un racconto che scorre con facilità di sala in sala.


L’idea di farci entrare nel poema è chiara sin dall’inizio: si accede alla prima sala attraverso una controporta a forma di legatura e la prima opera che incontriamo è proprio un libro, l’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, dal quale come prestigioso spin off, il Furioso prende inizio.


Le stanze della mostra isolano le tematiche che compaiono nel testo ariostesco a cominciare da quello della battaglia dove a farla da padrone, al centro della sala, è il corno d’avorio di olifante (elefante) che la tradizione vuole sia quello utilizzato da Orlando a Roncisvalle, una cruenta scena della quale è raffigurata in un monumentale arazzo appeso in parete. Più piccolo ma prezioso, il disegno a sanguigna di Leonardo da Vinci dove si affrontano giganti che lottano con mostri ed elefanti in un intreccio di membra e zampe che evoca un vortice. La mostra prosegue con la stanza dedicata alla ricostruzione della vita di corte e all’intreccio genealogico e culturale tra Ferrara e Mantova: la marchesa Isabella d’Este, sorella di Alfonso I era infatti moglie del signore di Mantova Francesco Gonzaga. Ecco quindi il ritratto di Leonello d’Este di Pisanello, La Virtù che scaccia i Vizi di Mantegna, dipinto dal pittore veneziano per lo studiolo di Isabella a Mantova.


La sala dedicata alla figura del cavaliere non poteva prescindere dal personaggio più legato alla filosofia della corte umanistica e alla sua temperie morale, San Giorgio. La tavola di Cosmè Tura, attualmente in collezione Cini a Venezia ce lo presenta intento ad infilzare con un movimento che pare un passo di danza, un piccolo drago morente; lo ritroviamo ancora mentre combatte, lancia in resta e su un cavallo bianco, contro un drago fantastico, rettile, uccello e leone mentre la fragile principessa assiste alla scena indossando un abito di rara eleganza, così come immaginava la scena Paolo Uccello.


Desiderio e follia sono i lieviti coi quali è impastato il poema ed ecco così una donna desiderata, idealizzata e purissima nella sua nudità statuina: una Venere di Botticelli alla quale Ariosto poteva aver pensato per la figura incorrotta di Angelica.


E’ una grande luna dorata, posta in un punto strategico dell’allestimento ad illuminare il nodo narrativo della perdita del senno del cavaliere Orlando. Una luna molto concreta, la palla dorata che coronava l’obelisco di piazza San Pietro a Roma e che nel suo corpo reca ancora le tracce degli archibugi dei lanzichenecchi che profanarono la città nel 1527. Sarà solo sulla luna, luogo della non passione, dell’assenza di qualsiasi intemperanza, che il cavaliere Astolfo ritroverà il senno di Orlando, che l’ha perduto non vedendo ricambiato il suo amore da Angelica.


Conviene qui ricordare come i personaggi che comparivano nell’Orlando Innamorato di Boiardo, Astolfo2016-11-01-ariosto-2 tra gli altri, siano ripresi da Ariosto e inseriti in un contesto narrativo che intreccia i fili dei diversi racconti di cui sono protagonisti, creando una trama che ne sovrappone gli incontri e ne intreccia i destini in maniera inaspettata, come, ci avverte il curatore Bulzamini nell’audioguida, una moderna telenovela. Il Furioso era anche una lettura d’intrattenimento e come tale non poteva dimenticare un elemento che aggiunge incantamento, semmai ce ne fosse stato bisogno: il senso del magico e del meraviglioso. Tutto il poema ne è pervaso e se la malvagia Alcina, combatte con le sue armi magiche i prodi guerrieri cristiani e saraceni trasformandoli in alberi, pietre, animali, è Melissa, la maga buona a ristabilire l’ordine delle cose. Dosso Dossi la raffigura in figura imponente e veste sontuosa dentro il cerchio magico, mentre brucia gli incantesimi di Alcina per restituire spoglie umane ai guerrieri.


Il meraviglioso non era patrimonio unicamente della narrazione fantastica, ed ecco quindi portolani, carte di navigazione, atlanti dove nelle terre incognite appena scoperte sono raffigurati pappagalli dai mille colori, città favolose che le scoperte geografiche rivelano ad un pubblico sempre più vasto, grazie anche all’invenzione della stampa. Saranno le stampe negli atlanti di Tolomeo,  Mercatore, Ortelio, a informare sull’esistenza di luoghi lontani, scrigni di meraviglie, com’era stato secoli prima il Catai di Marco Polo. Senza dimenticare che proprio dal Catai i poemi prima di Boiardo e quindi di Ariosto, fanno provenire la principessa Angelica.


La mostra termina con un dipinto straordinario, che torna in Ferrara da dove era partito nel 1598: il Baccanale degli Andrii di Tiziano, attualmente conservato al museo del Prado di Madrid.


Assieme ad altre tele venne commissionato da Alfonso I d’Este per il proprio Camerino privato all’interno della via Coperta, quel tratto di sovrapportico che unisce palazzo Ducale al Castello Estense. Il soggetto fu suggerito al pittore dal duca stesso, secondo la pratica umanistica, traendolo dalle pagine di Filostrato il vecchio (II secolo dopo Cristo).


Tiziano consegnò il dipinto personalmente al duca nel 1525 circa. Pochi decenni dopo, nel 1598, quando il papato s’impossesso del ducato estense, assieme ad altri dipinti e sculture che si trovavano in palazzo e nel castello, venne confiscato e portato a Roma presso la raccolta Aldobrandini da cui seguì altri percorsi collezionistici, fino ad approdare, nel 1639, alle collezioni reali di Filippo IV di Spagna. Ariosto doveva conoscere bene il Camerino del duca Alfonso e sicuramente l’opera di Tiziano; sono ascritti al pittore cadorino almeno due ritratti di Ariosto, rispettando una tradizione anedottica e divulgativa più che un vero percorso filologico e storico artistico.  A noi basta immaginare che attorno all’opera, il duca Alfonso, il poeta e il pittore, si riunissero a commentare un dipinto straordinario che intreccia citazioni dall’antico e vivacità compositiva e descrittiva.


La mostra finisce qui e  a noi non rimane altro che trattenere negli occhi le immagini appena viste e rileggere l’Orlando Furioso,  sicuri che vi troveremo draghi, foreste, battaglie sanguinose, donne incantevoli, mari in tempesta con lo stesso stupore di cinquecento anni fa, quando l’Orlando Furioso vide la luce, in quel di Ferrara.


Palazzo dei Diamanti


Corso Ercole I d’Este


Orlando Furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi


 in corso fino all’8 gennaio 2017, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, curata da Adolfo Tura e Gudo Beltramini con l’affiancamento di Maria Luisa Pacelli e Barbara Guidi, allestimento studio Antonio Ravalli Architetti.

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