Da bimbo spesi i soldini delle prime paghette per comprare una copia de “Il segno rosso del coraggio”di Stephen Crane (allora abitavo a Pescara ed aveva appena aperto la libreria Mondadori su corso Umberto; era un piccolo negozio ad una sola vetrina ma per me era bellissimo e immenso, tutto bianco e luminoso, gli scaffali ordinati e il libro era bellissimo anche lui, la copertina rigida con su disegnato un soldato unionista, la divisa blu che risaltava evidente sul bianco abbagliante). Il secondo libro comprato, mesi dopo, con i soliti soldini della paghetta fu “Il vecchio e il mare” di papa Hemingway.
Ora mi capita tra le mani questa vecchia edizione di “Mentre morivo” di William Faulkner (che rappresenta, insieme agli altri componenti della per me trilogia inseparabile che formava con John Steinbeck e Erskine Caldwell, parte integrante della mia weltanschauung letteraria). Certo, il buon caro vecchio Ernest sta lassù, sul gradino più alto, e certo Steinbeck, il raffinato Steinbeck (tutto e solo merito delle folgoranti traduzioni di Elio Vittorini?), può essere considerato quasi un doppio del modernista Faulkner (l’inizio, l’incipit di questo “Mentre morivo” con la presentazione insistita di Darl e Jewel è praticamente sovrapponibile, il ritmo, la musica che si sprigiona dal raccontare, a quello di “Uomini e topi” di, appunto, Steinbeck). Ed altrettanto certo è che il mio preferito rimane però Caldwell, il misconosciuto Caldwell, il disperato cantore della disperazione urbana (a differenza delle disperazioni rurali protagoniste delle novelle degli altri due), il partecipe, generoso, socialista antelitteram Caldwell cantore di violenze fini a se stesse, lo scorretto Caldwell cantore di sessuomani e misogini, di fantini nani drogati di sesso e di prostitute dai capezzoli staccati a morsi, il languido, ingenuo Caldwell cantore di un sud dell’animo radicato e radicale, di un sud confederato difficile da obliare. Considerando tutto questo, però, più che di dilungarmi nello specifico su questo “Mentre morivo” che non conoscevo, mica si può aver letto tutto d’altronde anche se una scusa all’ignoranza, alla dimenticanza, comunque esiste: “Mentre morivo” venne infatti scritto nello stesso anno, il ’29, l’anno della Grande Depressione, solo una coincidenza? in cui fu editato quello che l’universo mondo riconosce come l’incontestato capolavoro faulkneriano, ”L’urlo e il furore”; si capisce quindi come quindi ogni succedaneo possa aver perso, almeno nell’immediato, ogni attrattiva), sulla sua struttura che precede ed anticipa quelli che saranno i temi e gli stilemi della letteratura di Faulkner: tra tutti, la molteplicità dei punti di vista con cui la vicenda (in questo caso, un iniziatico e conclusivo viaggio alla ricerca della stessa genesi della famiglia Bruden) viene narrata alternando le diverse voci, le diverse esperienze (o, per dirla con un termine caro alla psicoanalisi in quegli anni appena sdoganata e voracemente applicata alla letteratura, vedi Joyce o Svevo, i differenti flussi di coscienza) dei protagonisti con i capitoli del romanzo intitolati, di volta in volta, ai diversi commentatori/ componenti la famiglia; più che soffermarmi sulle discrepanze di tempo e/o luogo, sulle diversità di intensità, sugli alti e bassi del divenire stesso della storia (situazioni assurde ed altre comiche, alcune simboliche ed altre ancora inconcluse si inseguono nel divenire tragico della vicenda) che esistono, devono esistere (ricordate? diversi i punti di vista, diversi i narratori, diverse le sensibilità il sentire il pensare dei protagonisti); più che notare come tutto questo crei uno strano alternarsi, una strana altalena, di sentimenti ed attenzioni, di torpori ed interessi nel lettore arrivando a metterne a dura prova, la disponibilità percettiva, rimanendo comunque una pietra miliare della letteratura all time, quello che più mi interessa è spendere una riflessione sulle traduzioni con le quali siamo, ahimè, abituati a confrontarci. Di questo “Mentre morivo”, una vecchia copia della Medusa mondadoriana del 1958 con la traduzione (“… unica traduzione autorizzata dall’americano …”) di Giulio De Angelis, esiste anche una versione più moderna, del 2000, di Adelphi con la traduzione (in realtà “… a cura di ...”) di Mario Materassi. Ed in effetti è stato interessante leggere in contemporanea le due edizioni per verificarne le difformità e, nell’evidenziarle, il differenziarsi della lingua. In realtà, nulla di che; tutto resta come deve. Cambiano i termini, certe parole, soprattutto cambia la costruzione della frase. Un soggetto, un complemento, acquistano una diversa risonanza, una più marcata consistenza. Chiaramente, il senso non muta, ma la musicalità, un po’ più d’importanza data ad un oggetto, ad un sentimento (basta una virgola, basta rivoltare una frase: così, se nel ’58 “… le galline sono tutto per noi. Quelle poche che ci hanno lasciato gli opossum e le altre bestiacce fanno un sacco di uova …” nel 2000 “… dipendiamo molto dalle nostre galline. Sono brave ovaiole, le poche che ci sono rimaste dopo gli opossum e tutto il resto …”. E se nel ’58 “… d’estate poi ci sono anche i serpenti. Un serpente ti entra in un pollaio e non fai a tempo ad accorgertene …”, nel 2000 ci sono “… anche serpenti, l’estate. Un serpente , a far piazza pulita di un pollaio ci mette un nulla …”. Evidentemente (e le parti da portare ad esempio sono, sarebbero, continue, tutto il romanzo, in pratica), nulla cambia. Il senso, il racconto, ciò che succede e viene narrato, non muta, se non formalmente. E se forse la traduzione di allora rimane più fedele all’originale, almeno per quello che riguarda la sintassi delle parole che probabilmente rispecchia più quella dell’americano del 1929, nella versione moderna si coglie quasi un che, una voglia, un piglio, autorale, quasi un affermare l’intervento del traduttore/curatore, quasi il semplice tradurre, il semplice dare voce a quella dell’autore primevo, non bastasse, non fosse sufficiente, ed anzi richiedesse un’interpretazione, un ergersi a protagonista, deuteragonista quasi, del traduttore stesso. Non so. Il discorso mi pare complesso, o forse solo complicato. Ma dentro, nel profondo, l’impatto della lingua parlata allora resta tanto più forte. Con buona pace del traduttore aspirante autore.
Ora mi capita tra le mani questa vecchia edizione di “Mentre morivo” di William Faulkner (che rappresenta, insieme agli altri componenti della per me trilogia inseparabile che formava con John Steinbeck e Erskine Caldwell, parte integrante della mia weltanschauung letteraria). Certo, il buon caro vecchio Ernest sta lassù, sul gradino più alto, e certo Steinbeck, il raffinato Steinbeck (tutto e solo merito delle folgoranti traduzioni di Elio Vittorini?), può essere considerato quasi un doppio del modernista Faulkner (l’inizio, l’incipit di questo “Mentre morivo” con la presentazione insistita di Darl e Jewel è praticamente sovrapponibile, il ritmo, la musica che si sprigiona dal raccontare, a quello di “Uomini e topi” di, appunto, Steinbeck). Ed altrettanto certo è che il mio preferito rimane però Caldwell, il misconosciuto Caldwell, il disperato cantore della disperazione urbana (a differenza delle disperazioni rurali protagoniste delle novelle degli altri due), il partecipe, generoso, socialista antelitteram Caldwell cantore di violenze fini a se stesse, lo scorretto Caldwell cantore di sessuomani e misogini, di fantini nani drogati di sesso e di prostitute dai capezzoli staccati a morsi, il languido, ingenuo Caldwell cantore di un sud dell’animo radicato e radicale, di un sud confederato difficile da obliare. Considerando tutto questo, però, più che di dilungarmi nello specifico su questo “Mentre morivo” che non conoscevo, mica si può aver letto tutto d’altronde anche se una scusa all’ignoranza, alla dimenticanza, comunque esiste: “Mentre morivo” venne infatti scritto nello stesso anno, il ’29, l’anno della Grande Depressione, solo una coincidenza? in cui fu editato quello che l’universo mondo riconosce come l’incontestato capolavoro faulkneriano, ”L’urlo e il furore”; si capisce quindi come quindi ogni succedaneo possa aver perso, almeno nell’immediato, ogni attrattiva), sulla sua struttura che precede ed anticipa quelli che saranno i temi e gli stilemi della letteratura di Faulkner: tra tutti, la molteplicità dei punti di vista con cui la vicenda (in questo caso, un iniziatico e conclusivo viaggio alla ricerca della stessa genesi della famiglia Bruden) viene narrata alternando le diverse voci, le diverse esperienze (o, per dirla con un termine caro alla psicoanalisi in quegli anni appena sdoganata e voracemente applicata alla letteratura, vedi Joyce o Svevo, i differenti flussi di coscienza) dei protagonisti con i capitoli del romanzo intitolati, di volta in volta, ai diversi commentatori/ componenti la famiglia; più che soffermarmi sulle discrepanze di tempo e/o luogo, sulle diversità di intensità, sugli alti e bassi del divenire stesso della storia (situazioni assurde ed altre comiche, alcune simboliche ed altre ancora inconcluse si inseguono nel divenire tragico della vicenda) che esistono, devono esistere (ricordate? diversi i punti di vista, diversi i narratori, diverse le sensibilità il sentire il pensare dei protagonisti); più che notare come tutto questo crei uno strano alternarsi, una strana altalena, di sentimenti ed attenzioni, di torpori ed interessi nel lettore arrivando a metterne a dura prova, la disponibilità percettiva, rimanendo comunque una pietra miliare della letteratura all time, quello che più mi interessa è spendere una riflessione sulle traduzioni con le quali siamo, ahimè, abituati a confrontarci. Di questo “Mentre morivo”, una vecchia copia della Medusa mondadoriana del 1958 con la traduzione (“… unica traduzione autorizzata dall’americano …”) di Giulio De Angelis, esiste anche una versione più moderna, del 2000, di Adelphi con la traduzione (in realtà “… a cura di ...”) di Mario Materassi. Ed in effetti è stato interessante leggere in contemporanea le due edizioni per verificarne le difformità e, nell’evidenziarle, il differenziarsi della lingua. In realtà, nulla di che; tutto resta come deve. Cambiano i termini, certe parole, soprattutto cambia la costruzione della frase. Un soggetto, un complemento, acquistano una diversa risonanza, una più marcata consistenza. Chiaramente, il senso non muta, ma la musicalità, un po’ più d’importanza data ad un oggetto, ad un sentimento (basta una virgola, basta rivoltare una frase: così, se nel ’58 “… le galline sono tutto per noi. Quelle poche che ci hanno lasciato gli opossum e le altre bestiacce fanno un sacco di uova …” nel 2000 “… dipendiamo molto dalle nostre galline. Sono brave ovaiole, le poche che ci sono rimaste dopo gli opossum e tutto il resto …”. E se nel ’58 “… d’estate poi ci sono anche i serpenti. Un serpente ti entra in un pollaio e non fai a tempo ad accorgertene …”, nel 2000 ci sono “… anche serpenti, l’estate. Un serpente , a far piazza pulita di un pollaio ci mette un nulla …”. Evidentemente (e le parti da portare ad esempio sono, sarebbero, continue, tutto il romanzo, in pratica), nulla cambia. Il senso, il racconto, ciò che succede e viene narrato, non muta, se non formalmente. E se forse la traduzione di allora rimane più fedele all’originale, almeno per quello che riguarda la sintassi delle parole che probabilmente rispecchia più quella dell’americano del 1929, nella versione moderna si coglie quasi un che, una voglia, un piglio, autorale, quasi un affermare l’intervento del traduttore/curatore, quasi il semplice tradurre, il semplice dare voce a quella dell’autore primevo, non bastasse, non fosse sufficiente, ed anzi richiedesse un’interpretazione, un ergersi a protagonista, deuteragonista quasi, del traduttore stesso. Non so. Il discorso mi pare complesso, o forse solo complicato. Ma dentro, nel profondo, l’impatto della lingua parlata allora resta tanto più forte. Con buona pace del traduttore aspirante autore.
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