Negli anni ’80 (già da prima, invero, e con molta più festosa inventiva, ma fu negli ottanta che l’immaginazione, seppur per un breve fugace illusorio momento prese il potere) fino a sconfinare alla metà degli anni ’90, Bologna era un fermento di idee luoghi situazioni personaggi, il crocevia privilegiato di incontri e scontri, conoscenze ed abbandoni, intelligenze ed improvvisazioni, speranze utopie ed illusioni (seguite, ça va sans dire, da disillusioni e rimpianti e rimorsi alle volte cocenti, ustionanti persino, ma pur sempre formativi).
Da vecchio, scafato, e ormai da tempo arenato, navigatore, io la vissi, in parte, quella Bologna, in parte vivendola da, se non proprio protagonista, quantomeno buon comprimario, in parte solo sognandola, in parte ancora sogguardandola di nascosto. Compagni di strada, di strade sarebbe più giusto dire, ne ho avuti tanti. E tanti, per dirla con il cantore, sono andati, alcuni per età, alcuni perché fattisi dottori. Alcuni altri, invece, ancora continuano a viverla, no non a viverla Bologna, a vivere loro come se tutto ancora fosse cristallizzato a quei tempi. E non so, davvero, cosa sia più augurabile. Ma tornando a noi, ad allora, tante e tante erano le possibilità, le occasioni, le coincidenze, fortunate, che potevano capitare. E così, ad un corso seguito da uditore poteva seguire un corso tenuto da docente. Le capacità erano riconosciute, io imparavo da te cose che non so, lui imparava da me ciò che non conosceva e alla fine tutto tornava, eravamo tutti più ricchi, di stimoli, idee, inventive. Funzionava così tra privati, ma più nella cosa pubblica. Erano i tempi di un assessorato alla cultura che funzionava, c’erano teste, e idee, e volontà voglie entusiasmi a farlo funzionare. Erano i tempi dei CentriGiovanili. Erano i tempi dei laboratori autogestiti, dell’assoluto possibile. Erano i tempi che (si dice in cui, lo so, ma così è più … come a quei tempi), normalmente, potevi incontrare li Living al completo che sonnecchiava (un unicum a più teste) nel giardino di una biblioteca in periferia e se avevi pazienza e lo (li) aspettavi poi finivi la serata a bere vino e ascoltare racconti di un altro modo, o mondo?, di fare teatro. Erano i tempi che (idem come sopra) passeggiavi, normalmente, sotto i portici con Squarzina e Eco e Meldolesi e Fink e Dionigi (Roberto) e LaPolla e. Erano i tempi che prendevi un treno per andare a Porretta o Ravenna (vabbè vabbè, era il ’78, ma i tempi, lo spirito erano ancora quelli) e ti ritrovavi all’interno di una macchina sonora gioiosa e fantasiosa, ritmica e musicale con John (Cale) e Demetrios (Stratos), Tito (Gotti) e Giampiero (Cane), Juan (Hidalgo) e Daniel (Charles). Erano i tempi che, normalmente, riportavi Bene a braccia in albergo (lo avevi aspettato all’uscita del Duse e poi si finiva a rovinarsi di whiskey a casa di qualcuna delle sue tante … ammiratrici).
Erano gli anni, dicevo, dei CentriGiovanili. E di quello, in particolare, dei FratelliRosselli. All’interno del quale c’era una fucina, una factory potremmo dire, di giovani, allora, menti creative: fotografia, scrittura, arti, musica, teatro. E io che mi occupavo allora (con Marco Lambertini, Oscar Ferrari, Stefano Zuppiroli e Willy Cremonini a formare una sorta di collettivo conosciuto come RosBros) all’interno della struttura di CombatPhoto (la chiamo così, così mi piace chiamarla, quella esperienza di fotografia portata fuori dalle angustie di una camera oscura o una sala di posa per essere esposta, dimostrata, condivisa con la gente nei luoghi più impensati, più diversi. Facile a dirsi oggi, quando giustamente si potrebbe liquidarla, l’esperienza, con un già visto, già fatto. Allora, però, era nuova, l’esperienza, quantomeno inesplorata, in città) fui testimone, come fotografo, spettatore, complice e quasi amico, della nascita di quella che sarebbe divenuta una meteora sfavillante nel panorama asfittico e nebuloso del nuovo teatro italiano, Pietro Babina (bolognese, classe ’67) e il suo TeatrinoClandestino. Intendiamoci. Bologna aveva visto, in anni passati, Carmelo Bene preparare una indimenticabile versione di “Pinocchio”. In quegli anni, Leo (DeBerardinis) aveva trovato ospitalità al SanLeonardo, Cherif era ospite fisso dell’ArenaDelSole, Andrea Adriatico diede vita ai suoi “TeatriDiVita” e ThierrySalmon aveva iniziato un percorso che lo avrebbe portato, prima di diventare un faro del teatro internazionale, a collaborare con l’ERT a Modena e poi con la stessa Arena.
Eppure, eppure, la scena teatrale alternativa (se ha un senso parlare di alternatività …) stava prendendo la strada delle Romagne. Esperienze come la SocietasRaffelloSanzio di Romeo e Claudia Castellucci e Chiara Guidi o come il TeatroDellaValdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri a Cesena o il TeatroDelleAlbe di Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni a Ravenna o ancora Motus di Enrico Casagrande e Daniela Francesconi Nicolò a Rimini erano i nomi, grandi nomi, che monopolizzavano l’attenzione non solo nazionale sul giovane (ancora quest’aggettivo, ma qui utilizzato solo per distinguerlo e separarlo da quello dei parrucconi tromboneschi e declamanti ancora oggi a volte in auge nella tradizione) teatro italiano.
Nel suo piccolo, anche a Bologna e dintorni, però, qualcosa si muoveva. Piccole esperienze, piccole compagnie, all’inizio almeno, che nel tempo si sarebbero fatte conoscere come espressioni intelligenti e creative nel panorama teatrale anche di fuori regione (penso, anche se in anni decisamente successivi, al lavoro del TeatroDelleAriette di CastelloDiSerravalle o a Laminarie di Bologna).
Ed è appunto in questo clima, in questa ambiance, che a Bologna, e proprio al FratelliRosselli (ecco l’aggancio al lungo preambolo), nasce in quegli anni il TeatrinoClandestino di Pietro Babina e Fiorenza Menni (esperienza conclusa nel 2010 dopo un ventennio di teatralità questa sì combattiva). Un’esplosione di creatività, innovazione, anche incongrua, anche velleitaria alle volte. Ma quanta potenza. Quanta visionarietà. E mentre la loro visibilità cresceva dai pochi, pochissimi, scomodi posti della sala prove situata al 1° piano dell’ex Forno del Pane (sì, sì, proprio la sede dell’attuale MaMBO. Allora si entrava dal retro, l’angolo che da sulla discesa che porta alla Salara, c’era un portoncino, sulla destra la nostra sala di posa, poi le scale che portavano al 1° piano, la sala prove teatrali, e poi in fondo le camere oscure ed i laboratori delle arti visive; bei tempi) ai palcoscenici e alle collaborazioni più importanti e prestigiose (con il Teatro Stabile dell’Emilia Romagna per “Tempesta-melologo” o “Si prega di non discutere di casa di bambola” o con la Biennale di Venezia in occasione di “Hedda Gabler” o ancora con il Festival d’Autumne di Parigi, con il Ravenna Festival, il RomaEuropaFestival, il Kunsten Festival Des Arts de Bruxelles, Le Maillon di Strasburgo) culminate nell’assegnazione del PremioUbu (il premio riguardante il teatro sicuramente più importante in Italia fondato da Franco Quadri nel 1978 e che ha visto succedersi autori premiati come Strehler e Ronconi, Tiezzi e Cobelli, Carmelo Bene e Massimo Castri, Castellucci e Martinelli, Leo De Berardinis e Thierry Salmon).
Ma perché dico tutto questo? Agiografia allo stato puro nei confronti di Babina? No. Dico questo solo perché, a conclusione, per ora, del lungo percorso autorale, solo il mese scorso ha esordito a Bologna nella regia dell’opera lirica con una curiosa versione della “Carmen” di Bizet. Curiosa dicevo. Infatti, per chi conosce, apprezza e ha seguito nel tempo la poetica di Babina, curioso è stato l’uso e l’organizzazione dello spazio scenico; curioso ed insolito. Non installazioni video che assumono ruoli preminenti sia drammaturgicamente che scenicamente. Non un’estetica associata ad una produzione visuale e materica con forte riferimento alle arti grafiche. Bensì una più equilibrata “… compartecipazione tra le varie componenti della macchina teatrale fino ad arrivare, coinvolgendole tutte, a far sì che la partitura si esprima nella sua pienezza in scena …”. Il risultato, certo, è riuscito. Soprattutto se si pensa allo svecchiamento proposto della solita Spagna stereotipata che alberga nell’immaginario collettivo quando si parla di Carmen. Come altrettanto certo è che la regia lirica, la figura del regista lirico, è alquanto, come dire, chiusa, introflessa in se stessa. I registi lirici, infatti, fanno parte di una sorta di compagnia di giro. Sono sempre gli stessi a succedersi gli uni agli altri. Le idee, stante la preminenza dell’opera, il bel canto, la partitura appunto, sull’idea registica (che sempre e comunque DEVE essere al servizio della musica autoreferenzialmente, impedisce una qualsiasi idea di rinnovamento, novità, rivisitazione della macchina registica stessa. Okkio. Sto parlando di REGIA, non mi avventurerò, mai lo farei, nella palude della critica lirica (qui, in questo campo, la situazione è anche più stagnante; sempre e solo i pareri di quei due o tre critici che si rincorrono in un giardino privato perseguendo e perpetuando una propria visione del mondo e del teatro che spesso e volentieri è, appunto, solo loro). Ma sto divagando. Tornando a questa “Carmen” di Pietro Babina, nonostante un forse impossibile da evitare ridimensionamento della propria ridondante energia registica, bisogna senza dubbio sottolineare la riuscita rappresentazione di un personaggio a forti tinte ed altrettanto forti motivazioni. Un personaggio che entra così fortemente in noi perché, in fondo e semplicemente, è solo ciò che noi vogliamo che quel personaggio sia. E riuscire in questo, credete, non deve essere stata impresa da poco.
Steven Duda
Nota: * trovandoci, io a scrivere e chi vuole a leggere, in una società quale quella nostra in cui il sentire dominante è quello dell’ “eternamente giovane” mi sia concesso l’aggettivo
Da vecchio, scafato, e ormai da tempo arenato, navigatore, io la vissi, in parte, quella Bologna, in parte vivendola da, se non proprio protagonista, quantomeno buon comprimario, in parte solo sognandola, in parte ancora sogguardandola di nascosto. Compagni di strada, di strade sarebbe più giusto dire, ne ho avuti tanti. E tanti, per dirla con il cantore, sono andati, alcuni per età, alcuni perché fattisi dottori. Alcuni altri, invece, ancora continuano a viverla, no non a viverla Bologna, a vivere loro come se tutto ancora fosse cristallizzato a quei tempi. E non so, davvero, cosa sia più augurabile. Ma tornando a noi, ad allora, tante e tante erano le possibilità, le occasioni, le coincidenze, fortunate, che potevano capitare. E così, ad un corso seguito da uditore poteva seguire un corso tenuto da docente. Le capacità erano riconosciute, io imparavo da te cose che non so, lui imparava da me ciò che non conosceva e alla fine tutto tornava, eravamo tutti più ricchi, di stimoli, idee, inventive. Funzionava così tra privati, ma più nella cosa pubblica. Erano i tempi di un assessorato alla cultura che funzionava, c’erano teste, e idee, e volontà voglie entusiasmi a farlo funzionare. Erano i tempi dei CentriGiovanili. Erano i tempi dei laboratori autogestiti, dell’assoluto possibile. Erano i tempi che (si dice in cui, lo so, ma così è più … come a quei tempi), normalmente, potevi incontrare li Living al completo che sonnecchiava (un unicum a più teste) nel giardino di una biblioteca in periferia e se avevi pazienza e lo (li) aspettavi poi finivi la serata a bere vino e ascoltare racconti di un altro modo, o mondo?, di fare teatro. Erano i tempi che (idem come sopra) passeggiavi, normalmente, sotto i portici con Squarzina e Eco e Meldolesi e Fink e Dionigi (Roberto) e LaPolla e. Erano i tempi che prendevi un treno per andare a Porretta o Ravenna (vabbè vabbè, era il ’78, ma i tempi, lo spirito erano ancora quelli) e ti ritrovavi all’interno di una macchina sonora gioiosa e fantasiosa, ritmica e musicale con John (Cale) e Demetrios (Stratos), Tito (Gotti) e Giampiero (Cane), Juan (Hidalgo) e Daniel (Charles). Erano i tempi che, normalmente, riportavi Bene a braccia in albergo (lo avevi aspettato all’uscita del Duse e poi si finiva a rovinarsi di whiskey a casa di qualcuna delle sue tante … ammiratrici).
Erano gli anni, dicevo, dei CentriGiovanili. E di quello, in particolare, dei FratelliRosselli. All’interno del quale c’era una fucina, una factory potremmo dire, di giovani, allora, menti creative: fotografia, scrittura, arti, musica, teatro. E io che mi occupavo allora (con Marco Lambertini, Oscar Ferrari, Stefano Zuppiroli e Willy Cremonini a formare una sorta di collettivo conosciuto come RosBros) all’interno della struttura di CombatPhoto (la chiamo così, così mi piace chiamarla, quella esperienza di fotografia portata fuori dalle angustie di una camera oscura o una sala di posa per essere esposta, dimostrata, condivisa con la gente nei luoghi più impensati, più diversi. Facile a dirsi oggi, quando giustamente si potrebbe liquidarla, l’esperienza, con un già visto, già fatto. Allora, però, era nuova, l’esperienza, quantomeno inesplorata, in città) fui testimone, come fotografo, spettatore, complice e quasi amico, della nascita di quella che sarebbe divenuta una meteora sfavillante nel panorama asfittico e nebuloso del nuovo teatro italiano, Pietro Babina (bolognese, classe ’67) e il suo TeatrinoClandestino. Intendiamoci. Bologna aveva visto, in anni passati, Carmelo Bene preparare una indimenticabile versione di “Pinocchio”. In quegli anni, Leo (DeBerardinis) aveva trovato ospitalità al SanLeonardo, Cherif era ospite fisso dell’ArenaDelSole, Andrea Adriatico diede vita ai suoi “TeatriDiVita” e ThierrySalmon aveva iniziato un percorso che lo avrebbe portato, prima di diventare un faro del teatro internazionale, a collaborare con l’ERT a Modena e poi con la stessa Arena.
Eppure, eppure, la scena teatrale alternativa (se ha un senso parlare di alternatività …) stava prendendo la strada delle Romagne. Esperienze come la SocietasRaffelloSanzio di Romeo e Claudia Castellucci e Chiara Guidi o come il TeatroDellaValdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri a Cesena o il TeatroDelleAlbe di Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni a Ravenna o ancora Motus di Enrico Casagrande e Daniela Francesconi Nicolò a Rimini erano i nomi, grandi nomi, che monopolizzavano l’attenzione non solo nazionale sul giovane (ancora quest’aggettivo, ma qui utilizzato solo per distinguerlo e separarlo da quello dei parrucconi tromboneschi e declamanti ancora oggi a volte in auge nella tradizione) teatro italiano.
Nel suo piccolo, anche a Bologna e dintorni, però, qualcosa si muoveva. Piccole esperienze, piccole compagnie, all’inizio almeno, che nel tempo si sarebbero fatte conoscere come espressioni intelligenti e creative nel panorama teatrale anche di fuori regione (penso, anche se in anni decisamente successivi, al lavoro del TeatroDelleAriette di CastelloDiSerravalle o a Laminarie di Bologna).
Ed è appunto in questo clima, in questa ambiance, che a Bologna, e proprio al FratelliRosselli (ecco l’aggancio al lungo preambolo), nasce in quegli anni il TeatrinoClandestino di Pietro Babina e Fiorenza Menni (esperienza conclusa nel 2010 dopo un ventennio di teatralità questa sì combattiva). Un’esplosione di creatività, innovazione, anche incongrua, anche velleitaria alle volte. Ma quanta potenza. Quanta visionarietà. E mentre la loro visibilità cresceva dai pochi, pochissimi, scomodi posti della sala prove situata al 1° piano dell’ex Forno del Pane (sì, sì, proprio la sede dell’attuale MaMBO. Allora si entrava dal retro, l’angolo che da sulla discesa che porta alla Salara, c’era un portoncino, sulla destra la nostra sala di posa, poi le scale che portavano al 1° piano, la sala prove teatrali, e poi in fondo le camere oscure ed i laboratori delle arti visive; bei tempi) ai palcoscenici e alle collaborazioni più importanti e prestigiose (con il Teatro Stabile dell’Emilia Romagna per “Tempesta-melologo” o “Si prega di non discutere di casa di bambola” o con la Biennale di Venezia in occasione di “Hedda Gabler” o ancora con il Festival d’Autumne di Parigi, con il Ravenna Festival, il RomaEuropaFestival, il Kunsten Festival Des Arts de Bruxelles, Le Maillon di Strasburgo) culminate nell’assegnazione del PremioUbu (il premio riguardante il teatro sicuramente più importante in Italia fondato da Franco Quadri nel 1978 e che ha visto succedersi autori premiati come Strehler e Ronconi, Tiezzi e Cobelli, Carmelo Bene e Massimo Castri, Castellucci e Martinelli, Leo De Berardinis e Thierry Salmon).
Ma perché dico tutto questo? Agiografia allo stato puro nei confronti di Babina? No. Dico questo solo perché, a conclusione, per ora, del lungo percorso autorale, solo il mese scorso ha esordito a Bologna nella regia dell’opera lirica con una curiosa versione della “Carmen” di Bizet. Curiosa dicevo. Infatti, per chi conosce, apprezza e ha seguito nel tempo la poetica di Babina, curioso è stato l’uso e l’organizzazione dello spazio scenico; curioso ed insolito. Non installazioni video che assumono ruoli preminenti sia drammaturgicamente che scenicamente. Non un’estetica associata ad una produzione visuale e materica con forte riferimento alle arti grafiche. Bensì una più equilibrata “… compartecipazione tra le varie componenti della macchina teatrale fino ad arrivare, coinvolgendole tutte, a far sì che la partitura si esprima nella sua pienezza in scena …”. Il risultato, certo, è riuscito. Soprattutto se si pensa allo svecchiamento proposto della solita Spagna stereotipata che alberga nell’immaginario collettivo quando si parla di Carmen. Come altrettanto certo è che la regia lirica, la figura del regista lirico, è alquanto, come dire, chiusa, introflessa in se stessa. I registi lirici, infatti, fanno parte di una sorta di compagnia di giro. Sono sempre gli stessi a succedersi gli uni agli altri. Le idee, stante la preminenza dell’opera, il bel canto, la partitura appunto, sull’idea registica (che sempre e comunque DEVE essere al servizio della musica autoreferenzialmente, impedisce una qualsiasi idea di rinnovamento, novità, rivisitazione della macchina registica stessa. Okkio. Sto parlando di REGIA, non mi avventurerò, mai lo farei, nella palude della critica lirica (qui, in questo campo, la situazione è anche più stagnante; sempre e solo i pareri di quei due o tre critici che si rincorrono in un giardino privato perseguendo e perpetuando una propria visione del mondo e del teatro che spesso e volentieri è, appunto, solo loro). Ma sto divagando. Tornando a questa “Carmen” di Pietro Babina, nonostante un forse impossibile da evitare ridimensionamento della propria ridondante energia registica, bisogna senza dubbio sottolineare la riuscita rappresentazione di un personaggio a forti tinte ed altrettanto forti motivazioni. Un personaggio che entra così fortemente in noi perché, in fondo e semplicemente, è solo ciò che noi vogliamo che quel personaggio sia. E riuscire in questo, credete, non deve essere stata impresa da poco.
Steven Duda
Nota: * trovandoci, io a scrivere e chi vuole a leggere, in una società quale quella nostra in cui il sentire dominante è quello dell’ “eternamente giovane” mi sia concesso l’aggettivo
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